A Gerusalemme torna il terrore

sabato 15 luglio 2017


Un clamoroso attentato terroristico, lanciato dall’interno della Spianata delle Moschee di Gerusalemme, rischia di sconvolgere le iniziative intraprese dall’emissario di Donald Trump per ricreare fiducia fra israeliani e palestinesi e minaccia anzi di far ripiombare in una spirale di violenza.

Protagonisti dell’attacco tre arabi israeliani che, dopo aver recitato nella Spianata le preghiere del mattino, hanno ucciso due agenti per poi essere abbattuti a loro volta dal fuoco dei poliziotti. Le drammatiche immagini di quest’ultima fase, rilanciate sul web, hanno gettato altra benzina sul fuoco. Hamas e la Jihad islamica, da Gaza, hanno subito esultato. Un piccolo gruppo, Fatah-Intifada, ha rivendicato l’attacco, senza però fornire nessun elemento a sostegno.

A quanto risulta allo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, gli attentatori - tutti membri del clan familiare Jabarin di Um el-Fahem, nel nord di Israele - non risultavano peraltro affiliati ad alcuna formazione politica. Secondo la ricostruzione della polizia, i Jabarin erano riusciti a trafugare nella Spianata due mitragliette artigianali Carl Gustav ed una pistola. Così armati sono usciti dal santuario e hanno sorpreso alle spalle gli agenti di guardia ad uno degli ingressi, sparando loro a bruciapelo. Due poliziotti, entrambi drusi, sono morti poco dopo il ricovero, un terzo è rimasto ferito.

A questo punto gli attentatori sono rientrati di corsa nella Spianata, distante alcune decine di metri: là sono stati però bloccati e neutralizzati da altre forze di polizia al termine di un scontro a fuoco. Sul terreno, in quei momenti, la situazione rischiava di sfuggire di controllo. La polizia ha infatti sbarrato gli accessi alla Spianata (per cercare altri possibili attentatori) e per la prima volta da decenni ha impedito le preghiere islamiche del venerdì. Il provvedimento ha suscitato l’ira del Mufti di Gerusalemme, sceicco Muhammed Hussein, che è stato poi interrogato dalla polizia israeliana.

Da diversi Paesi arabi sono subito giunte condanne. Mentre migliaia di fedeli musulmani, che non erano stati ammessi nella Città Vecchia, recitavano le loro preghiere nelle strade di Gerusalemme est adiacenti in una sfida di massa alla polizia, Netanyahu ha deciso di telefonare ad Abu Mazen nel tentativo di arginare la crisi. Il presidente palestinese ha condannato sia l’attentato sia il divieto delle preghiere del venerdì. Il timore diffuso fra i palestinesi è che in questa circostanza Israele decida di alterare lo status quo nella Spianata, cedendo alle continue pressioni che giungono da ambienti nazionalisti ebraici. Ma ciò, ha assicurato Netanyahu, non avverrà. Israele certo rafforzerà le misure di sicurezza, ma la Spianata sarà gradualmente riaperta al pubblico da domenica. Da parte sua lo Stato ebraico si aspetta però dall’Anp che lotti contro “la continua incitazione alla violenza”.

L’attentato nella Spianata di Gerusalemme - un luogo sacro sia ai musulmani sia agli ebrei, per i quali si tratta del Monte del Tempio - è giunto dopo un periodo di calma relativa. Ad accrescere il cauto ottimismo si era aggiunta adesso la spola diplomatica di Jason Greenblatt, l’emissario personale di Trump, che è appena riuscito a favorire la firma di due accordi di cooperazione israelo-palestinese per l’erogazione di corrente elettrica e di acqua nella Cisgiordania settentrionale. ‘L’intifada dei singoli’ sembrava dunque se non sconfitta, almeno arginata. Ma i drammatici eventi di oggi - accompagnati dall’uccisione di un adolescente palestinese nel corso di tumulti nel campo profughi di Deheishe, alle porte di Betlemme - hanno rimesso tutto in discussione. “Finché resta l’occupazione - ha avvertito Abbas Zaki, un dirigente di al-Fatah - non ci saranno né pace né stabilità”.


di Aldo Baquis