Corea del Nord, scacco cinese

Quanto è seria la nuova crisi nordcoreana? Iniziata con l’ultimo test nucleare del 9 settembre 2016 e tuttora in corso, è caratterizzata da uno scambio di accuse e minacce di inaudita violenza fra il regime di Pyongyang e il governo di Washington. “Siamo pronti anche a un attacco preventivo”, dichiara il segretario alla Difesa americano James Mattis. “Trasformeremo l’America in un mare di fuoco” risponde il dittatore Kim Jong-un. Ma i fatti narrano tutta un’altra storia. In un incontro trilaterale fra i ministri degli Esteri di Usa, Giappone e Corea del Sud, a Manila, a margine del vertice dei Paesi dell’Asean, non si è affatto discusso di attacchi preventivi, semmai di ripresa dei negoziati. E il giorno stesso, il ministro degli esteri sudcoreano Kang Kyung-wha ha incontrato la sua controparte nordcoreana Ri Yong Ho in un rarissimo faccia a faccia. Si sarebbe risolto con un nulla di fatto, Ri avrebbe rifiutato la proposta di negoziato bilaterale perché “non sincera”. Ma intanto si sono incontrati. E tanto basta per due Paesi divisi dalla cortina di confine più militarizzata al mondo. Gli stessi termini usati dal segretario di Stato Usa Rex Tillerson fanno presagire tutto meno che una guerra imminente. “Non siamo il vostro nemico”, ha dichiarato lo scorso fine settimana, all’indomani dell’ultimo test missilistico nordcoreano. E a Manila ha ribadito che il miglior modo di segnalare l’intenzione di riaprire il dialogo, per Kim Jong-un, sarebbe quello di interrompere i numerosi lanci di prova dei nuovi ordigni.

Quale dei due aspetti è la realtà? La guerra imminente o la trattativa imminente? Probabilmente nessuna delle due. Perché la vera notizia è una sola: il voto della Cina al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Pechino ha infatti ordinato al suo ambasciatore di votare a favore delle nuove sanzioni contro il tradizionale alleato di Pyongyang. Vengono colpite duramente le esportazioni di materie prime e pescato, un danno da un miliardo di dollari all’anno, un terzo dell’intero valore dell’export della Corea del Nord. Dunque al di là del bastone agitato da Mattis e dalla carota offerta da Tillerson, la vera azione statunitense è consistita nel premere sulla Cina per ottenere il suo voto pro-sanzioni in sede Onu. La stessa Cina, nelle settimane scorse, era stata accusata dal presidente Donald Trump (via Twitter, come è suo solito) di non fare nulla per contenere l’irruenza di Kim Jong-un. Ora ha fatto qualcosa, almeno. Ovviamente non è scontato che le sanzioni verranno rispettate. E infatti il ministro Tillerson si riserva un atteggiamento di fiducia con verifica, promette che veglierà sul confine sino-coreano, unico vero punto di transito di quel poco di commercio che c’è in una nazione completamente autarchica. Importa piuttosto il messaggio politico: la Corea del Nord è veramente isolata, anche dai suoi unici alleati rimasti.

Quanto alle due conseguenze estreme, la guerra da una parte e il negoziato dall’altro, entrambe sono possibilità alquanto remote. La guerra prima di tutto: a un profano potrebbe anche apparire “facile” un attacco preventivo della prima potenza militare del mondo (e delle forze armate, degne di tutto rispetto, dei suoi alleati in Asia) contro un regno eremita ancora fermo alla tecnologia sovietica e cinese degli anni Ottanta. Ma non è affatto facile. Non perché la Corea del Nord possa vincere l’eventuale conflitto. Ma perché, prima di perdere, ha la possibilità di infliggere danni irreparabili alla Corea del Sud e probabilmente anche al Giappone. La capitale sudcoreana, Seul, è a tiro di cannone dell’artiglieria nordcoreana. Migliaia di pezzi d’artiglieria e lanciarazzi sono nascosti nelle montagne, al riparo di eventuali raid aerei e missilistici americani. In caso di guerra, anche in caso di un piccolo raid preventivo, Seul verrebbe bombardata. Una delle aree più densamente popolate dell’Asia verrebbe colpita con armi convenzionali o chimiche. Sarebbe una strage, inevitabilmente. Gli Usa ne porterebbero la responsabilità. Questa prospettiva fa sì che l’attacco preventivo americano, minacciato sin dal 1994 (ai tempi dell’amministrazione Clinton), resti solo sulla carta.

Anche la via del negoziato pare “facile” agli occhi di un pubblico occidentale. La Corea del Nord avrebbe, infatti, tutto l’interesse a uscire dall’isolamento in cui si è infilata. Ma non in un’ottica nordcoreana, di un regime che si è deliberatamente isolato e inimicato il resto del mondo con il suo programma nucleare e missilistico. Che accetta che il suo popolo patisca la fame pur di andare avanti. Per la dinastia Kim, arrivata alla sua terza generazione, il potere si conserva solo con l’isolamento del Paese, con la presenza di un nemico forte alle porte, con la prospettiva di una guerra totale imminente e con la garanzia di un’arma nucleare, funzionante, con cui scongiurare un attacco nemico. In questa ottica, una trattativa vera è impensabile, se non come espediente per guadagnare tempo.

Aggiornato il 08 agosto 2017 alle ore 10:44