L’Iran condanna a morte Djalali per spionaggio

martedì 24 ottobre 2017


Condannato a morte, per spionaggio. Sembra avviata verso l’epilogo peggiore la vicenda di Ahmadreza Djalali, il medico iraniano arrestato a Teheran nell’aprile del 2016 e per la cui liberazione si è mobilitata anche l’Italia, dove il ricercatore aveva lavorato all’Università del Piemonte Orientale di Novara. La sentenza - assente finora sui media ufficiali iraniani ma rilanciata in persiano da Bbc, Voice of America, Radio Farda e media dell’opposizione - risale a sabato scorso ed è stata confermata ieri da Elena Ferrara, senatrice novarese del Partito Democratico. “La notizia ci è arrivata dalla moglie - dice la senatrice - e questa mattina è stata confermata dalla Farnesina. Ridaremo vigore alla mobilitazione, non ci arrendiamo”. Anche con il sostegno del governo della Svezia, aggiunge, dove la famiglia del ricercatore ora risiede. E lo stesso ministro degli Esteri Angelino Alfano ha assicurato che l’Italia continuerà “a sensibilizzare gli iraniani su questo caso fino all’ultimo”, come ha già fatto, ha detto, “a livello diplomatico con il nostro ambasciatore e a livello politico come Farnesina”. Djalali, 45 anni, è un esperto di medicina d’emergenza, e dal 2012 al 2015 ha lavorato al Centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri (Crimedim) dell’Università piemontese.

La mobilitazione internazionale a suo favore ha portato alla raccolta di oltre 220mila firme in tutto il mondo. Amnesty International ha avviato un’azione urgente e rilanciato una raccolta firme, mentre i figli di 5 e 14 anni si sono rivolti anche al Papa su Facebook: “Francesco aiuta il mio papà a tornare a casa”. L’assemblea generale dei rettori italiani ha approvato nel marzo scorso una mozione per “l’incondizionata difesa di tutte le libertà civili e processuali”. E lo stesso Djalali - che in carcere avrebbe subito pressioni perché confessasse di essere una spia per conto di un governo ostile - ha osservato uno sciopero della fame di protesta dal febbraio all’aprile scorsi. “Sto bene, pensate alla mia famiglia”, ha detto poi al suo ex collega dell’ateneo di Novara, Luca Ragazzoni. A pronunciare la sentenza, con motivazioni in cui si parla di “contatti con Israele”, è stato un tribunale speciale, cioè la 15esima Corte rivoluzionaria della Repubblica islamica dell’Iran. Ma in Italia chi si è mobilitato per Djalali - coinvolgendo anche l’Alto rappresentante Ue, Federica Mogherini - non intende arrendersi. La notizia della condanna, afferma l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, “conferma la natura oscurantista del regime iraniano, dove il boia lavora a pieno ritmo se pensiamo che quest’anno, alla fine di settembre, erano già 456 le persone salite sul patibolo secondo Human Rights Monitor”. E si appella al Governo italiano “affinché ponga la questione del rispetto dei diritti umani e la liberazione di Djalali come richiesta prioritaria nelle relazioni che riguardano l’Iran”. I Radicali Italiani vanno oltre, chiedendo ad Alfano di convocare l’ambasciatore iraniano a Roma “per protestare contro la condanna di una persona che ha svolto attività scientifica per il suo e il nostro Paese”.


di Redazione