Caso Regeni: è tempo di battere anche la pista britannica

venerdì 3 novembre 2017


Considerati gli sviluppi degli ultimi giorni sul caso Regeni, ripubblichiamo volentieri l’articolo di Leonardo Tricarico uscito a settembre sul nostro periodico “L’Opinione - Idee e Azioni”.

La ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni non può passare soltanto attraverso l’accanimento senza sosta nei confronti dell’esecutore del crimine, l’Egitto di al-Sisi, mentre al contempo nei confronti del mandante, l’Università di Cambridge, viene mantenuto un atteggiamento blando, tendente al rinunciatario.

Pur colpevoli ambedue per legge, esecutore e mandante, pare più abietto il comportamento di chi, pur non avendo concepito in senso stretto il fatto delittuoso, ha mandato allo sbaraglio un povero giovane conoscendo i significativi rischi cui andava incontro.

Fosse successo in Italia, l’università non avrebbe avuto scampo, la legge che tutela l’operato di dipendenti all’estero avrebbe sanzionato il datore di lavoro che non si fosse premurato di valutare i rischi della missione e non vi avesse posto riparo con una corretta informazione/formazione e con la predisposizione delle misure di sicurezza più adeguate. Sarebbe interessante sapere con quale atto formale Giulio Regeni abbia avuto l’incarico di condurre le ricerche in Egitto ed a firma di chi; questo il bandolo della matassa per valutare i comportamenti del “mandante” rispetto alla legge britannica, che si suppone preveda, in questo caso specifico, adeguate forme di tutela per il lavoratore.

In effetti, la giustizia italiana ha provato ad avviare una interlocuzione con Cambridge, ma l’unica rogatoria presentata dalla Procura di Roma si è infranta di fronte alla riluttanza e alla resistenza inglese a collaborare. Non è stato tra l’altro consentito al magistrato italiano di condurre gli interrogatori richiesti, una prima volta per vizio di forma, una seconda per esplicito diniego.

Da non sottovalutare nella ricostruzione dello scenario di origine, e delle connesse responsabilità, un corretto (e forse da approfondire ulteriormente) profiling della tutor di Giulio, Maha Abderahman. Questa non ha fatto mai mistero della sue simpatie per la Fratellanza Musulmana, quella fratellanza che al-Sisi ha privato del potere e che oggi costituisce ancora la vera spina nel fianco del governo in carica. Poteva quindi Maha Abderahman non essere consapevole dei rischi cui andava incontro Giulio Regeni frequentando gli ambienti sindacali del Cairo?

Altro elemento abietto del contesto britannico, il fatto che dopo pochi mesi dalla tragica fine di Giulio, un altro istituto abbia tentato la stessa operazione con un altro studente italiano, sempre in Egitto.

Per fortuna il giovane ne ha parlato con i genitori, i quali a loro volta hanno chiesto consiglio ad un giornalista, un vecchio volpone, il quale ha proposto l’accettazione dell’incarico subordinata al fatto che l’università avesse informato preventivamente le autorità egiziane sulla natura della missione dello studente italiano al Cairo. L’università non ha accettato le condizioni richieste ed il giovane non è partito.

A questo punto il sospetto è che sia molto diffusa la pratica di mandare allo sbaraglio giovani studenti in contesti non proprio permissivi senza le giuste tutele, magari senza neppure una banale polizza assicurativa a copertura dei rischi più comuni.

Fin qui le università. È poi opinione diffusa di un ruolo centrale dei Servizi di Informazione britannici, il vero e proprio mandante di livello superiore che orienterebbe la ricerca delle università verso obiettivi di proprio interesse, mediante l’utilizzo di manovalanza a basso costo, gli studenti appunto, il cui lavoro andrebbe ad arricchire il patrimonio informativo dei Servizi di Sua Maestà.

Questo è almeno quello che alcuni media hanno paventato, tra cui di recente Dagospia che il 17 agosto scorso ha titolato: “Il mistero della morte di Giulio Regeni non è un mistero. Tutti hanno capito perché è stato ucciso, tutti sanno come Regeni operava come inconsapevole pedina nelle mani della professoressa di origine egiziana Maha Abderahman dell’Università di Cambridge, vicina alla Fratellanza Musulmana, che lo avrebbe usato per raccogliere informazioni per conto dei Servizi Segreti inglesi”. Più chiaro di così!

Vero o falso che tutto questo sia, qualche circostanza sembra avvalorare la tesi. Ad esempio l’insolita rapidità con cui l’ambasciatore italiano al Cairo si è mobilitato quando Regeni è scomparso. Chi ha informato l’ambasciatore in tempi così stretti, addirittura poche ore dopo il fatto? Tale dinamica emergenziale infatti, con il coinvolgimento diretto e personale del Capo Missione, è del tutto inusuale quando si tratti di un qualunque cittadino italiano in difficoltà all’estero.

In conclusione, se il quadro più fosco della vicenda venisse confermato, ci troveremmo di fronte ad uno scenario in cui una istituzione di un paese democratico - i Servizi di Informazione e Sicurezza - si avvale di collegamenti funzionali con istituti universitari - Cambridge ed altri - passando loro specifici piani di ricerca da portare a termine attraverso l’utilizzo di studenti, probabilmente inconsapevoli sia dell’utilizzatore ultimo delle loro ricerche, sia dei rischi che incontreranno sul loro cammino e senza che nei loro confronti venga adottata alcuna misura di protezione funzionale.

Uno scenario che, se appunto venisse confermato, meriterebbe ben più di una flebile rogatoria prontamente “neutralizzata” da risposte reticenti od elusive. Se si pensa che per la vicenda del Dc-9 di Ustica sono state presentate decine di rogatorie nei confronti di più paesi alleati, Stati Uniti compresi, e che in quel caso la loro chiamata in causa era palesemente fondata su ipotesi del tutto fantasiose, quali la battaglia aerea ed un missile assassino lanciato da un velivolo sconosciuto.

Per tutti questi motivi la pista britannica va battuta con maggiore energia, da tutti gli aventi voce e titolo, i genitori di Regeni, i media, la giustizia, come occorso finora con quella egiziana, non fosse altro che per dissuadere gli operatori, compresi quelli istituzionali, dal proseguire in pratiche di cui dover poi rendere pubblicamente conto.


di Leonardo Tricarico