Palestinesi: se non ci darete tutto, non potremo fidarci di voi

sabato 2 dicembre 2017


I palestinesi sono ancora una volta arrabbiati – questa volta perché l’amministrazione Trump non sembra condividere la loro posizione riguardo al conflitto israelo-palestinese. I palestinesi sono anche arrabbiati perché credono che l’amministrazione Trump non voglia costringere Israele a soddisfare tutte le loro richieste.

I palestinesi la vedono in questo modo: se non sei con noi, allora sei contro di noi. Se non accetti tutte le nostre richieste, allora sei nostro nemico e non possiamo fidarci di te nel ruolo di mediatore “onesto” nel conflitto con Israele. La settimana scorsa, fonti non confermate hanno ancora una volta riportato che l’amministrazione Trump ha lavorato a un piano di pace globale in Medio Oriente. I dettagli completi del piano rimangono ancora sconosciuti. Ma ciò che è certo – secondo le fonti – è che il piano non soddisfa tutte le richieste dei palestinesi. In realtà, nessun piano di pace – da parte degli americani o di qualsiasi altra parte – sarebbe in grado di offrire ai palestinesi tutto ciò che loro chiedono. Le condizioni dei palestinesi sono irrealistiche come sempre. I palestinesi chiedono ad esempio che a milioni di “profughi” palestinesi sia riconosciuto il diritto al ritorno in Israele. Inoltre, i palestinesi vogliono che Israele si ritiri entro i confini indifendibili, il che favorirebbe un avvicinamento di Hamas e di altri gruppi a Tel Aviv.

L’Autorità palestinese (Ap) e il suo leader, l’82enne Mahmoud Abbas, ora nel dodicesimo anno del suo mandato quadriennale, continuano a insistere sul fatto che non accetteranno altro che uno Stato palestinese indipendente e sovrano, con Gerusalemme Est come capitale, nei territori conquistati da Israele nel corso della “Guerra dei Sei giorni” del 1967. La cosa più pericolosa è che anche nell’improbabile eventualità che Abbas firmi un accordo, potrebbe in seguito arrivare un altro leader che affermi a giusto titolo che Abbas non aveva alcuna autorità per firmare nulla poiché il suo mandato era scaduto da tempo.

Hamas, il gruppo terroristico islamista palestinese che controlla la Striscia di Gaza, sostiene che non accetterà mai la presenza di Israele su territori di “proprietà musulmana”. Hamas vuole tutte le terre che Israele avrebbe presumibilmente “portato via” nel 1948. In parole povere, Hamas vuole la distruzione di Israele per instaurare un califfato islamico in cui ai non musulmani verrebbe riconosciuto lo status di dhimmi (“persone protette”).

A differenza dell’Autorità palestinese, Hamas ha il merito di essere chiaro e coerente riguardo al suo vero obiettivo. Dalla sua fondazione avvenuta decenni fa – e nonostante le recenti speranze illusorie espresse dagli esperti occidentali – Hamas ha rifiutato di cambiare la sua ideologia o di ammorbidire la sua politica. È fermamente ancorato alla sua posizione secondo la quale nessun musulmano ha il diritto di cedere nessuna parte delle terre di proprietà musulmana ai non musulmani (in questo caso, gli ebrei. Lo stesso dicasi per la “pulizia” della Turchia, volta a eliminare gli armeni e i greci non musulmani). D’altra parte, l’Autorità palestinese – Giano bifronte – continua a parlare a più voci, inviando messaggi contrastanti tanto alla propria popolazione quanto alla comunità internazionale. Nessuno sa davvero se l’Ap abbia una strategia chiara e coerente nei suoi rapporti con Israele.

Mahmoud Abbas sa come sembrare estremamente gentile, e spesso lo fa quando incontra i leader israeliani e occidentali. Ma quando parla in arabo alla sua gente, talvolta è difficile distinguere Abbas dal leader di Hamas Ismail Haniyeh. Alcuni dei più alti funzionari di Abbas sembrano essere ancora più estremisti di Hamas. Tranne, ovviamente, quando questi ufficiali palestinesi affabili e con tanto di istruzione occidentale vengono mandati a parlare agli occidentali. E allora, tutto a un tratto, i loro toni diventano mielosi.

Poiché i leader dell’Autorità palestinese e i loro sostituti sono dissonanti, inviano messaggi contrastanti al mondo sulle loro reali intenzioni e spesso riescono a ingannare tutti. Troppo spesso il mondo crede ai messaggi che vuole sentire anziché a quelli meno comodi e reali. I messaggi contraddittori dell’Ap hanno dato l’impressione che essa sia tanto un partner di pace quanto un nemico, a seconda di chi li ascolta e quando. Una cosa è chiara: i palestinesi ritengono che non corra buon sangue tra loro e gli Stati Uniti. A loro avviso – e lo reputano instancabilmente da lungo tempo – gli Stati Uniti non sono in grado di svolgere un ruolo imparziale da mediatore nel conflitto con Israele. Ciò che preoccupa i palestinesi è l’alleanza forte e strategica tra gli Stati Uniti e Israele. I palestinesi hanno accusato ogni amministrazione statunitense degli ultimi quattro o cinque decenni di essere “di parte”, a favore di Israele. L’amministrazione Trump sta per ricevere una lezione sulla politica palestinese. Se e quando Washington renderà pubblico il suo piano di pace, i palestinesi saranno i primi a rigettarlo, semplicemente perché non soddisfa tutte le loro richieste. Mahmoud Abbas sa che non può ritornare dai suoi cittadini con qualcosa che non sia ciò che ha promesso al suo popolo: il cento per cento.

Nelle settimane scorse abbiamo già avuto un assaggio della risposta palestinese. Ecco, ad esempio, quello che il portavoce di Abbas, Nabil Abu Rudaineh, ha affermato quando gli è stato chiesto di commentare le notizie relative al piano di pace e alla minaccia americana di chiudere la missione diplomatica dell’Olp a Washington: “L’amministrazione americana ha perso la capacità di agire da mediatrice nella regione. Gli Stati Uniti non possono più essere visti come i promotori del processo di pace”.

Le parole di Abu Rudaineh sono state molto più sobrie e misurate dei commenti sull’amministrazione Trump espressi da altri ufficiali e fazioni palestinesi. Il capo negoziatore dell’Olp, Saeb Erekat, è arrivato addirittura a minacciare che i palestinesi sospenderanno tutte le comunicazioni con gli Stati Uniti se la missione diplomatica dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina venisse chiusa.

Ovviamente, nessuno sembra prendere sul serio la minaccia di Erekat. Interrompere le relazioni con gli Stati Uniti equivarrebbe a un suicidio per i palestinesi. Senza il sostegno finanziario e politico americano, l’Autorità palestinese ed Erekat sparirebbero in pochi giorni. A questo punto non è chiaro se quanto affermato da Erekat in merito all’interruzione delle relazioni con gli americani includa anche il rifiuto di accettare gli aiuti finanziari statunitensi. Tuttavia, le minacce di Erekat vanno viste nel contesto della crescente rabbia palestinese e dell’ostilità nei confronti dell’amministrazione Trump. Questa rabbia si traduce ora in un attacco retorico a Trump e alla sua amministrazione. I palestinesi accusano l’attuale amministrazione di lavorare e complottare al fine di “liquidare” la causa palestinese, e questo con l’aiuto di alcuni paesi arabi, tra cui l’Arabia Saudita e l’Egitto.

I palestinesi si sono fatti un’idea: il piano di pace di Trump è negativo per noi e non lo accetteremo. Il piano è pessimo perché non costringe Israele a dare tutto ai palestinesi. Per i palestinesi, il piano è negativo perché viene visto come parte di una cospirazione ordita da Jared Kushner e dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. I palestinesi sono convinti che Trump voglia “liquidare” la loro causa e non risolverla. Donald Trump sta per affrontare lo stesso iter di cui fu testimone il presidente Bill Clinton a Camp David, diciassette anni fa. A quel tempo, con grande stupore di Clinton, Yasser Arafat respinse un’offerta incredibilmente generosa da parte dell’allora premier israeliano Ehud Barak. Trump presto si renderà conto che per Mahmoud Abbas e per i palestinesi il 99 per cento non è abbastanza.

(*) Gatestone Institute

Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Bassam Tawil (*)