L’attacco della Turchia ai curdo-siriani

martedì 30 gennaio 2018


La popolazione curda si trova divisa, soprattutto, in quattro aree geografiche, più o meno contigue: Turchia, Iraq, Iran e Siria.  

I curdi siriani sono circa tre milioni e mezzo, e  oggi governano, di fatto, una striscia di territorio che occupa la parte settentrionale della Siria, che confina con la Turchia.  I curdi chiamano questa regione “Rojava”, o più esattamente “Rojava Kurdistan”, cioè “Kurdistan occidentale”. Il governo del Rojava è controllato dal Pyd, un partito che si potrebbe definire di ispirazione “socialista-libertaria”. Una grande importanza viene data all’autogoverno delle comunità locali. Il Rojava è diviso in tre “cantoni”, nome preso in prestito dalla Svizzera che costituisce una specie di modello di autogoverno locale per i curdi. (Il 16 marzo 2016, i curdi siriani avevano annunciato la “Federazione del Nord della Siria”, autonoma da Damasco, con i tre cantoni;  la Turchia aveva reagito duramente, ritenendo fondamentale l’unità territoriale della Siria perché temeva un’aspirazione all’unità con i curdi della Turchia). I cantoni di Kobane e Jazira sono territorialmente contigui, mentre il cantone di Afrin è ancora separato dagli altri due, da una striscia di territorio, dove l’Isis è ancora in parte presente.  Circa il 60 per cento delle riserve petrolifere della Siria si trova nel Rojava e costituisce l’unica fonte di guadagno per il governo locale.  Il Pyd non impone tasse ai suoi cittadini, e scuole e ospedali sono costruiti con i proventi del petrolio o grazie allo sforzo delle comunità locali.

Il Rojava ottenne la sua indipendenza di fatto nel corso del 2001. All’inizio della rivoluzione siriana, i curdi decisero di restare neutrali nei confronti del regime, nonostante i decenni di discriminazione a cui erano stati sottoposti. Per mesi la situazione tra milizie di curdi e soldati del governo che presidiavano la regione fu molto tesa con scontri sporadici e morti da entrambe le parti. Ma il Rojava rimase sostanzialmente una delle zone più tranquille del paese e il dittatore siriano Bashar al Assad decise di ritirare le sue truppe per inviarle nelle aree dove gli scontri erano più intensi.  La tregua tra il dittatore siriano e i curdi, è stata una soluzione tattica: il regime non li attaccava e quindi loro non attaccavano il regime. Anche perché c’era un nemico comune: l’Isis.   Ed, infatti, l’Isis ha subìto grandi sconfitte militari dalle milizie curde siriane (conosciute come Ypg), aiutate sia degli aerei della coalizione militare guidata dagli Stati Uniti sia dei ribelli siriani moderati dell’Esercito Libero Siriano.

Il petrolio e i valichi di confine con la Turchia, hanno reso il Rojava un obiettivo interessante per chiunque.  A questo bisogna aggiungere che il governo turco teme un Rojava forte e indipendente, in grado di creare problemi a causa della grande minoranza di curdi che vive in Turchia (ove costituiscono il 18,3 della popolazione). La sopravvivenza del Rojava è attualmente garantita soprattutto dalla sua milizia, l’Ypg, le cosiddette “Unità di protezione del popolo”.

I circa cinquantamila soldati dell’Ypg (uomini e donne) sono spesso confusi con i peshmerga, il nome che indica le forze armate del governo regionale del Kurdistan iracheno.  I peshmerga sono un esercito professionale, stipendiati e organizzati più o meno come qualunque altra forza militare della regione. L’Ypg, invece, somiglia più a un movimento di liberazione, formato da volontari.  Negli ultimi mesi parecchi giornalisti hanno visitato la regione accompagnati dai miliziani dell’Ypg, mentre delegazioni del Pyd hanno viaggiato per le capitali europee (sono venute anche a Roma) e tengono incontri, raccogliendo fondi presso le comunità curde locali e chiedendo aiuti finanziari e militari all’Europa. In Occidente, dove fino a un anno fa Ypg e Pyd erano sigle sconosciute, la simpatia per questo movimento sta crescendo.

Da sabato scorso, 20 gennaio, Ankara e i suoi alleati locali (gli arabi siriani) hanno attaccato il cantone di Afrin nel Rojava.  L’armata turca, nei giorni successivi, ha continuato la sua offensiva perché, secondo Ankara, è la stessa esistenza di Afrin che pone un problema alla sua sicurezza.  Questa operazione, che era stata auspicata dal presidente turco Erdogan già da tempo, è stata chiamata “Ramoscello d’Olivo”, espressione che  - diciamo, con un certo eufemismo -  suona male, dato che si svolge non solo via terra, ma anche con indiscriminati bombardamenti aerei.  Fino ad ora i paesi occidentali si sono limitati a raccomandare più prudenza, pur trovandoci in presenza di un degrado della situazione umanitaria che va sempre più aumentando. Di fronte all’offensiva turca, i curdi siriani hanno chiamato alla “mobilitazione in difesa di Afrin”. L’appello è stato lanciato dalle autorità di Rojava, l’embrione di stato autonomo all’interno della Siria, nato, de facto, con l’assenso americano. Sarebbe l’ennesima delusione per i Curdi rinunciare alla loro autonomia, dopo essersi battuti eroicamente contro lo Stato Islamico.

L’operazione militare turca suscita l’imbarazzo dei paesi che hanno aiutato i curdi siriani nella lotta contro l’Isis. L’Occidente, quindi, dovrebbe sentire il dovere morale di contribuire a fermare l’offensiva militare turca, che ha già fatto numerose vittime civili (l’Osservatorio per i diritti umani, che cita fonti sul terreno, afferma che sono già un centinaio le vittime, tra cui minori e donne, mentre, secondo i media panarabi, sarebbero oltre 5 mila i civili curdo-siriani già sfollati). La Turchia fa parte della Nato e gli Usa dovrebbero fare pressione sull’alleato per fermare questa offensiva, anche se le relazioni tra Ankara e Washington si sono parecchio deteriorate negli ultimi mesi.  Ankara, da parte sua, accusa le milizie Ypg d’appoggiare in Turchia il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) che conduce la guerriglia sul suolo turco.  Ankara, inoltre, sembra convinta che Washington non voglia rischiare un nuovo allontanamento della Turchia, partner indispensabile nella Nato.  Ecco perché Erdogan afferma di voler andare avanti fino alla vittoria finale: “L’operazione Ramoscello d’Olivo finirà quando avremo raggiunto il nostro obiettivo”, tuona il dittatore turco.  

La Turchia ha lanciato le sue operazioni militari dopo l’annuncio, a metà gennaio, fatto dalla coalizione internazionale anti-jihadista, capeggiata dagli Usa, di voler creare una forza frontaliera di 30mila uomini nel Nord della Siria, composta, fra l’altro, da combattenti del Ypg. Il sostegno di Washington ai curdi siriani è al centro di un duro scontro con Ankara sin dai tempi dell'amministrazione Obama. Ankara vuole evitare che i curdi siriani possano controllare la frontiera tra la Turchia e la Siria; ed intende costituire una zona cuscinetto di 30 chilometri in questa regione frontaliera (ricordiamo che i confini tra Siria e Turchia si estendono per 911 chilometri, di cui circa 600 con i curdi siriani del Rojava). Il cantone di Afrin, essendo isolato rispetto agli altri due cantoni del Rojava, costituisce un enclave ed è più facilmente attaccabile, soprattutto se si tiene conto che si trova stretto, da un lato, dalle forze turche, e, dall’altro, dai suoi alleati arabi siriani.  D’altronde, l’operazione di Erdogan non sarebbe stata possibile senza il consenso della Russia, presente nella regione con alcune centinaia di soldati: è un gioco di alleanze.  Anche Teheran e il Qatar hanno dato il via libera alla Turchia. È stata convocata, per iniziativa francese, una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu “per permettere l’accesso ad aiuti umanitari”, ma si è evidenziata, ancora una volta, l’impotenza dell’Onu, nel risolvere i problemi di fondo.

La resistenza dei curdi siriani sembra essere ad oltranza e i combattimenti sono molto violenti. Una delegazione del governo Usa (l’incontro era stato programmato precedentemente) è andata in Turchia e il futuro delle relazioni tra Ankara e Washington sarà probabilmente condizionato dalle conclusioni che si avranno nel teatro siriano, dove i turchi, forti dell’intesa con Mosca, continuano ad insistere nel considerare i curdi siriani dell’Ypg come terroristi.  Intanto il Pentagono ha portato da 500 a 2mila i suoi soldati che affiancano i curdi siriani e ciò si scontra con gli interessi della Turchia, che continua a rimanere un membro fondamentale nella Nato e che possiede uno degli eserciti più forti del Medio Oriente.  Non spirano venti di pace. Una scintilla, anche se scoccata involontariamente, potrebbe apportare, in uno scenario così vasto, guerre e distruzioni.


di Pietro Fontana