Chi ha fatto sparire Khashoggi?

Che fine ha fatto Jamal Khashoggi? A questa domanda dovrebbe essere il Qatar a rispondere. Infatti, il giornalista saudita scomparso a Istanbul sembra essere rimasto vittima dell’ennesima trama imbastita dal regime di Doha con i suoi fedeli esecutori appartenenti all’internazionale islamista della Fratellanza Musulmana, che ha attualmente nella Turchia del Sultano Erdogan il suo principale avamposto geopolitico e la sua principale base operativa.

Che Khashoggi fosse ormai divenuto un puppet, un burattino nelle grinfie della Fratellanza Musulmana, è un dato di fatto che Khashoggi stesso non ha fatto nulla per smentire o nascondere. Basta leggere il suo editoriale di fine agosto pubblicato dal Washington Post. Prendendo spunto dall’uscita di un libro sulla caduta di Morsi e l’ascesa di Al Sisi in Egitto scritto dal collega del New York Times, David D. Kirkpatrick, l’ennesimo degli occidentali folgorati sulla via dell’islam politico, Khashoggi illustra chiaramente la propria visione fondata sul culto della Fratellanza Musulmana, utilizzando argomentazioni a dir poco speciose e insostenibili.

Identificare nella Fratellanza Musulmana la sola speranza di libertà e cambiamento in Medio Oriente dopo secoli di tirannia, come fa convintamente Khashoggi, può essere solo il frutto di una profonda manipolazione ideologica e psicologica: arte in cui i Fratelli Musulmani sono notoriamente maestri facendo parte del loro tipico modus operandi da quasi un secolo. La democrazia dell’alternanza, il pluralismo e persino lo stato laico, per i Fratelli Musulmani non sono altro che cavalli di troia per la conquista del potere, attraverso cui far scendere sulla società il velo della loro dottrina basata su un approccio ultraortodosso e fondamentalista alla religione islamica. A prova di ciò, non bisognava attendere che Morsi implementasse il progetto dei Fratelli Musulmani per l’Egitto: bastavano già il regime khomeinista in Iran, quello di Hamas a Gaza e la deriva turca sotto il giogo di Erdogan.

Il popolo egiziano, lo stesso popolo che era sceso in piazza contro Mubarak, ha agito prima che fosse troppo tardi, dando vita a quella che Khashoggi e compagni, indispettiti, hanno definito derogativamente una contro-rivoluzione. Nell’articolessa, il giornalista attacca persino Barack Obama per non aver supportato la Fratellanza Musulmana in Egitto: un falso storico vista la malcelata intesa tra la precedente amministrazione americana e gli “Ikhwan” nel contesto della cosiddetta Primavera Araba, e la freddezza dei rapporti tra Washington e Al Sisi dopo la caduta di Morsi. Nel mirino di Khashoggi finisce naturalmente anche l’amministrazione Trump, accusata di aver ceduto alle pressioni della “sua” Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, incrementando l’ostilità americana verso la Fratellanza Musulmana fino al punto da volerla dichiarare ufficialmente come organizzazione terroristica.

Quello di Khashoggi per i Fratelli Musulmani e l’islam politico è un innamoramento di lungo corso, risalente agli anni Ottanta quando il pensiero degli “Ikhwan” aveva preso il largo anche in Arabia Saudita. Khashoggi appartiene infatti alla stessa generazione di Bin Laden, che fu profondamente influenzato dalla Fratellanza Musulmana a partire dagli anni universitari fino alla creazione di Al Qaeda. Khashoggi ha sempre fatto sfoggio di stima e amicizia per Bin Laden, intervistato quando si trovava in Afghanistan, al punto da piangerne con immenso dolore la scomparsa con un tweet indelebile che non poteva non presagire la rottura che si sarebbe consumata qualche anno più tardi con l’Arabia Saudita.

Dallo scoppio della crisi nel Golfo, avvenuta nel giugno 2017, Khashoggi si è fatto portavoce della propaganda e delle narrative adottate dal Qatar, Al Jazeera e dall’esercito mediatico ed elettronico della Fratellanza Musulmana, criticando duramente l’embargo imposto dal Quartetto arabo contro il terrorismo nei confronti di Doha e l’intervento militare nello Yemen ad opera della Coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Riyadh e Abu Dhabi continuano a sostenere il governo yemenita legittimo e internazionalmente riconosciuto nella liberazione del paese dall’occupazione delle milizie Houthi armate e finanziate dal regime khomeinista iraniano, con il fiancheggiamento dell’intelligence qatarina e della Fratellanza Musulmana locale (il partito Al Islah).

In sostanza, prima della sua misteriosa scomparsa a Istanbul, Khashoggi militava a pieno titolo nello schieramento internazionale di giornalisti, esperti, diplomatici, uomini politici e d’affari sul libro paga del Qatar e sotto l’influenza dei Fratelli Musulmani. Questi erano divenuti letteralmente la nuova famiglia di Khashoggi. Tuttavia, la fidanzata islamista, nonché le amicizie con influenti esponenti dell’entourage di Erdogan e con il Sultano stesso, potrebbero aver fatto parte di un grande inganno volto a far deflagrare una potentissima bomba mediatica e diplomatica sulla nuova leadership saudita.

L’intelligence turca che all’aeroporto non intercetta il presunto commando proveniente da Riyadh per eliminare Khashoggi; il video che riprende gli spostamenti dei presunti esecutori di fronte all’ambasciata e al consolato dell’Arabia Saudita composto da immagini di vecchia data, secondo rivelazioni riportate dai principali media arabi; le manifestazioni di protesta contro l’Arabia Saudita inscenate, come da copione, da organizzazioni legate al Qatar e alla Fratellanza Musulmana; il sostegno offerto dall’emiro del Qatar, Tamim Al Thani, al “fratello” Erdogan per affrontare la crisi con l’Arabia Saudita: una sceneggiatura preconfezionata con vari attori e Khashoggi nella parte della vittima inconsapevole, vittima dei suoi stessi Fratelli Musulmani. La verità sul caso Khashoggi si trova a Doha ed è lì, più che a Istanbul o Riyadh, che andrebbe ricercata.

Aggiornato il 17 ottobre 2018 alle ore 11:08