Khashoggi, Erdogan sceglie la via del dialogo con Riyadh

mercoledì 24 ottobre 2018


“Nessun dubbio sulla sincerità del re dell’Arabia Saudita Salman, stretta cooperazione nelle indagini tra Ankara e Riyadh, apprezzamento per aver riconosciuto l’avvenuto omicidio all’interno del suo consolato a Istanbul e aver assicurato alla giustizia sia gli esecutori che i mandanti”: l’odierna conferenza di Erdogan al gruppo parlamentare del suo partito avrà deluso quanti speravano che il caso Khashoggi potesse determinare una netta rottura tra Turchia e Arabia Saudita. L’escalation mediatica dei giorni scorsi - con la diffusione d’immagini e video verosimilmente contraffatti, e la suspense creata attorno alla presunta esistenza di registrazioni audio - aveva illuso sulla possibilità che il Sultano intendesse seguire il regime alleato del Qatar e l’influentissima rete internazionale dei Fratelli Musulmani nel muro contro muro con Riyadh.

Erdogan, invece, intelligentemente o per meglio dire furbescamente dal punto di vista formale e diplomatico, nella sua ricostruzione si è limitato a riaffermare la “verità” già stabilita dal processo mediatico internazionale, astenendosi dal fare “rivelazioni” che probabilmente non sono mai esistite e legittimando la linea investigativa e d’azione adottata dall’Arabia Saudita. Rompere adesso i ponti con Riyadh non gioverebbe infatti alla sua strategia di riabilitazione al cospetto di Europa e Stati Uniti, del cui supporto economico ha fortemente bisogno. Di qui i richiami al presidente americano Donald Trump, con il quale ha avviato una fase di distensione dopo la liberazione di Brunson, e a Federica Mogherini in rappresentanza di Bruxelles.

Il Sultano non ha mancato di riaffermare le sue credenziali neo-nazionaliste in vista delle prossime elezioni amministrative, sottolineando che la Turchia è uno stato sovrano, che l’omicidio di Khashoggi è avvenuto in territorio turco e che di questo si dovrà tenere conto nel prosieguo delle indagini nonostante l’extraterritorialità del consolato saudita. D’altro canto, ha fatto più volte riferimento alla comunità internazionale e al rispetto delle leggi del diritto internazionale, nel tentativo di spostare l’attenzione dalle violazioni dei diritti umani e dalla massiccia repressione di giornalisti, attivisti e oppositori ordinata per consolidare la sua presa assoluta del potere.

Non potendo trattare il caso Khashoggi sotto il profilo della libertà di stampa e di espressione, Erdogan ha dunque scelto la linea in questo momento più conveniente alla stabilità del suo regime: quella della moderazione. I media internazionali hanno enfatizzato le domande alle quali il Sultano ha chiamato l’Arabia Saudita a rispondere, come se equivalessero effettivamente a una dura presa di posizione. Ma con la richiesta di svelare l’identità del “collaboratore locale” a cui sarebbe stato consegnato il corpo di Khashoggi, Erdogan sembra aver voluto offrire a Riyadh la facoltà di fornire liberamente una risposta senza porre particolari pressioni. Inoltre, dell’accusa che si tratti di “omicidio premeditato”, come messo in risalto dai titoli di stampa, è lo stesso Erdogan a dover dare delle spiegazioni. È infatti scontato che un’operazione della portata di quella avvenuta a Istanbul non può che essere il frutto di una pianificazione intenzionale, mentre desta sorpresa l’inazione dei servizi di sicurezza e d’informazione turchi, che per tre giorni consecutivi non avrebbero notato il via vai di aerei privati e di linea da e per Riyadh, con a bordo gli esecutori di Khashoggi. O hanno finta di non vedere?

A questa domanda dovrebbe rispondere il Sultano, il quale si è anche ben guardato dal fare il benché minimo cenno al contesto più ampio nel quale s’inserisce la scomparsa e, in generale, la figura del giornalista saudita. All’Erdogan paladino della “coscienza internazionale, che sarà soddisfatta quando tutti i colpevoli saranno condannati”, non conveniva mettere in risalto l’attiva militanza del giornalista nei ranghi dei Fratelli Musulmani, di cui il Sultano è illustre padrino insieme agli emiri del Qatar, Hamad e Tamin Al Thani.

Khashoggi aveva effettuato una netta scelta di campo, come si evince da un editoriale pubblicato dal Washington Post lo scorso 28 agosto, dove rimpiangeva la mancata conquista del Medio Oriente da parte della Fratellanza durante la cosiddetta Primavera Araba: un’opinione che non ha nulla a che vedere con il libero giornalismo, ma che rivela come Khashoggi fosse divenuto una pedina nelle mani degli “Ikhwan” e del Qatar nell’ambito della contrapposizione in corso con il Quartetto composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto.

Il Sultano ha così preferito non fornire elementi che potessero chiamare in causa né il coinvolgimento di Ankara in tale contrapposizione a sostegno dei Fratelli Musulmani e del regime di Doha, né i profondi legami di Khashoggi con il regime islamista turco: dalla fidanzata e promessa sposa Hanice Cengiz, nipote di uno dei fondatori del partito di Erdogan, alle amicizie con alti esponenti dell’establishment, che tuttavia non sono servite a salvargli la vita forse perché Khashoggi era una pedina sacrificabile nelle oscure trame dei Fratelli Musulmani.

A quanti speravano di sfruttare il caso Khashoggi per rendere ancora più infuocata la conflittualità mediorientale, Erdogan ha risposto in maniera tale da evitare un’escalation, non interrompendo il dialogo con l’Arabia Saudita. Ora il Sultano ha di fronte a sé l’opportunità di favorire la normalizzazione sia delle relazioni tra i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che della situazione interna in Turchia, procedendo alla liberazione dei tanti prigionieri politici tuttora in carcere coerentemente alle recenti promesse di garantire più libertà e diritti umani. La sfrutterà?


di Souad Sbai