Khashoggi: la “Fratellanza” dei mass media

Tra i protagonisti del caso Khashoggi non vi sono soltanto governi, leader politici, investigatori e servizi d’informazione. Un ruolo cruciale è stato finora svolto da giornali e televisioni, che con titoli a effetto e presunte rivelazioni sono riusciti nell’intento di condizionare la percezione dell’opinione pubblica non solo su quanto ahimè accaduto nel consolato saudita a Istanbul, ma anche sullo sfondo e sul contorno dell’intera vicenda che vede al centro Jamal Khashoggi.

Il giornalista saudita è stata infatti oggetto di un’operazione di marketing senza precedenti, volta a “vendere” al pubblico l’immagine di un martire della libertà di stampa e di espressione, di un eroe che combatte contro la censura e la museruola imposte dal proprio paese. Tale operazione ha incontrato un notevole successo, poiché realizzata dall’esercito internazionale dei cosiddetti “mainstream media”, che hanno però agito perseguendo obiettivi politici che vanno ben al di là dei confini della difesa del libero giornalismo, e di cui la grande maggioranza dei lettori, ascoltatori e telespettatori è quasi certamente del tutto ignara.

Alla guida dell’esercito di giornaloni e opinionisti benpensanti si è posto il Washington Post, che a Khashoggi aveva dato asilo “politico” appunto. Per il Washington Post ogni scusa è buona per attaccare Trump o metterlo in imbarazzo, pertanto Khashoggi era funzionale alla creazione di fibrillazioni tra la Casa Bianca e l’Arabia Saudita. In tal senso, è stato funzionale anche al momento della sua scomparsa a Istanbul. Ma la campagna pro-Khashoggi del Washington Post tiene nascosta dietro un velo d’ipocrisia la dimensione fondamentale all’interno della quale operano o hanno operato gli attori coinvolti nella vicenda: quella dello scontro attualmente in corso in Medio Oriente, dove il Washington Post ha compiuto la stessa scelta di campo islamista di Khashoggi, mettendosi al servizio dei Fratelli Musulmani e dello stato canaglia che più li sostiene, il Qatar.

Prova di ciò sono gli articoli firmati da Khashoggi sul Washington Post, tra cui spiccano l’editoriale dello scorso 28 agosto, in cui il giornalista saudita indicava nella Fratellanza l’unica speranza di democrazia e libertà in Medio Oriente, rimpiangendone la mancata conquista della regione durante i sommovimenti della Primavera Araba, e l’editoriale pubblicato “postumo” del 17 ottobre. Quest’ultimo è stato “venduto” al mondo come una sorta di testamento politico-intellettuale di Khashoggi, poiché denuncia la mancanza di libertà di stampa e di espressione nel mondo arabo, con una commendevole eccezione: il governo del Qatar, che “continua a supportare la copertura di notizie internazionali, contrariamente agli sforzi dei suoi vicini di mantenere il controllo dell’informazione a sostegno del vecchio ordine arabo”.

Il riferimento ad Al Jazeera è evidente, per il poco lodevole impegno nel favorire l’ascesa di dittature islamiste targate Fratelli Musulmani in Egitto, Tunisia, Siria, Libia, Giordania, utilizzando le rivendicazioni (legittime) di maggiore apertura, democrazia e libertà – lo “spirito della Primavera Araba” come lo definisce Khashoggi – solo come grimaldello per scardinare “il vecchio ordine arabo”. Quello che sarebbe accaduto se le “contro-rivoluzioni”, scatenate dalla popolazione, non avessero messo il bastone tra le ruote al progetto della Fratellanza per il Medio Oriente, è oggi sotto gli occhi di tutti nell’Iran del tirannico regime khomeinista, costituito da Fratelli Musulmani in versione sciita.

Dimentico delle migliaia di dissidenti fuggiti all’estero o espulsi per volontà degli emiri Hamad e Tamim Al Thani, nell’elogiare il Qatar come “oasi” promotrice di libertà di stampa ed espressione nel mondo, Khashoggi intendeva molto probabilmente far riferimento anche ad Al Sharq Channel, televisione dei Fratelli Musulmani basata in Turchia e finanziata da Doha. La promessa sposa Hanice Cengiz, nipote di uno dei fondatori del partito islamista di Erdogan, ha lavorato presso Al Sharq Channel, per il quale ha intervistato guarda caso lo stesso Khashoggi, che vantava influenti amicizie all’interno dell’establishment turco.

Una “connection” islamista talmente imbarazzante da squarciare il velo d’ipocrisia indossato dal Washington Post e da indurre persino Erdogan, notoriamente paladino della Fratellanza Musulmana, a prendere le distanze nel riferire sul caso Khashoggi al gruppo parlamentare del suo partito. La linea della moderazione e del pragmatismo abbracciata dal Sultano ha infatti deluso quanti speravano in un’escalation della tensione con l’Arabia Saudita, compresi i “mainstream media” lasciati a corto di munizioni e ridotti a enfatizzare o distorcere alcuni passaggi del suo discorso pur di lanciare titoli forti e bellicosi.

La deriva del Washington Post, comune a quella di altri giganti dell’informazione, dimostra la capacità dei Fratelli Musulmani di condizionare il Quarto Potere grazie alle immense risorse finanziare garantitegli dal Qatar, che stanno consentendo di mettere a frutto l’incessante e pervicace lavoro di penetrazione del mondo dell’informazione insieme a quello istituzionale, politico, economico, sociale e culturale che la Fratellanza ha avviato in Occidente decenni orsono. Il caso Khashoggi, anche nei suoi punti più oscuri, ne è la prova evidente.

Aggiornato il 26 ottobre 2018 alle ore 19:56