I ladri liberi, i lavoratori in carcere

Susa, in farsì Shush, nel 1175 a.C. capitale del regno elamita, fu devastata dal sovrano assiro Assurbanipal nel 646 a.C., per poi diventare la residenza invernale dei re achemenidi. Susa, con la sua storia di oltre 4000 anni, oggi è una cittadina di circa 60mila abitanti che dista 766 chilometri dalla Capitale e 115 da Ahvaz, capoluogo della regione Khuzestan. Mercoledì 21 novembre a Susa tra le sue fitte nebbie, migliaia di lavoratori dello stabilimento della canna da zucchero di Haft-tapeh, al loro diciassettesimo giorno di agitazione, insieme ai loro familiari hanno protestato per rivendicare gli stipendi arretrati e contro l’arresto dei loro compagni. Alla protesta hanno aderito i bazarì e gli insegnati, e insieme si sono radunati di fronte al palazzo della prefettura. Il giorno successivo la loro protesta è proseguita e già dalla mattina i lavoratori con i loro cartelli in mano si sono riversati in strada, mentre i loro rappresentanti Moslem Armand, Hassan Fazeli, Mohammad Khanfiri e Esmail Bakhsi si trovavano ancora in carcere.

Ma qual è il problema dello stabilimento della canna da zucchero di Haft-tapeh? Problema che poi non è diverso da tutte le altre fabbriche, quelle poche rimaste, del Paese. Qual è il problema dell’Iran? Un grande e importante Paese passato dalle mani di un megalomane e pavido monarca a quelle di un pugno di barbari senza storia né cultura che non possiede altro che una caterva di superstizioni e tanta avidità di potere. La fabbrica di Haft-tapeh, fondata nel 1960, inizialmente possedeva 200 ettari per la coltivazione della canna da zucchero, poi nel 2010 si è arrivati a 100mila ettari.

Nel 2015 la fabbrica è stata privatizzata, come sanno fare quelli del regime teocratico. È stata ceduta a due giovani di 28 e 31 anni, che in questi giorni di protesta sono spartiti dalla circolazione, dopo averla depredata, accrescendo i suoi annosi problemi. Per decenni la fabbrica ha convissuto con diversi problemi non riuscendo a pagare gli stipendi e non versando i contributi previdenziali per 15 anni. La situazione di questi lavoratori si è ulteriormente aggravata in seguito alla drastica diminuzione del dazio sull’esportazione di zucchero, sistema gestito dagli uomini del regime. La sfida è trovare una prospettiva, qualsivoglia prospettiva, per gli oltre 5mila lavoratori della fabbrica; per il Paese.

Intanto ad Ahvaz i lavoratori dell’acciaieria continuano il loro sciopero, iniziato il 9 novembre. Manifestano ed esprimono inoltre solidarietà ai loro colleghi di Susa, esortando Rouhani a dare loro una qualche risposta, mentre sanno che non ne ha alcuna. Così anche a Teheran i lavoratori scendono in piazza per rivendicare non già i loro diritti fondamentali calpestati, ma i loro stipendi non pagati da mesi o da anni. Perfino nelle università a Teheran ci sono state manifestazioni in sostegno dei lavoratori dello stabilimento della canna da zucchero di Haft-tapeh. Insomma da tutto il Paese molte associazioni di categoria esprimono solidarietà ai lavoratori che protestano a Susa.

Dall’Italia, il responsabile delle politiche europee ed internazionali della Cgil, Fausto Durante, dichiara in un comunicato che “I più importanti centri di produzione e dell’economia del Paese sono nelle mani del Corpo dei pasdaran (Argc). Questi enti sfruttano i lavoratori vessandoli con le più dure pressioni ed oppressioni. Molti lavoratori non percepiscono lo stipendio da mesi e chi protesta viene licenziato. In Iran ci sono lavoratori che non ricevono lo stipendio da 6 mesi e persino da uno o due anni. Tutto il peso del carovita e dell’inflazione è sulle spalle dei lavoratori”.

Il dirigente del sindacato italiano denuncia “queste violazioni chiaramente lesive dei principi e delle norme internazionali” e chiede “il rispetto e l’applicazione delle convenzioni fondamentali del lavoro dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) a favore di lavoratori, lavoratrici e sindacati in Iran e la liberazione immediata e senza condizioni di tutti i lavoratori arrestati durante gli scioperi recenti”.

Ciò che trapela da tutti i movimenti in Iran è da una parte un malcontento generale e dall’altra l’incapacità intrinseca del regime ad affrontare i problemi. L’alibi delle sanzioni, su cui insistono frange del regime e gli sparuti lobbysti del reazionario regime di Teheran, è del tutto arrugginito e non copre più la corruzione che ha messo in ginocchio larga parte della popolazione. Uno degli slogan più in auge in quasi tutte le manifestazioni in Iran è “Il nostro nemico è qui, è una menzogna che è l’America!”.

Se nel Novecento in Iran ci sono state tre rivoluzioni con connotati ideali, quali libertà e democrazia, ora nel terzo millennio il Paese è in procinto di una epocale rivolta per la fame. I diseredati che il regime khomeinista doveva servire, ora non sopportano più il regime usurpatore, corrotto e del tutto incapace di amministrare un Paese alquanto complesso qual è l’Iran; sanciscono la sua fine, ne invocano il rovesciamento. I lavoratori, che nel frattempo sono diventati diseredati, ora gridano la loro rabbia: “né carcere né minacce ci spaventano più!”, “I ladri sono liberi, i lavoratori in carcere!”.

Aggiornato il 23 novembre 2018 alle ore 12:00