Brexit, Corbyn sfida May: Camera voti su referendum bis

mercoledì 23 gennaio 2019


Una Brexit “a la carte”, con un menu di opzioni alternative al piano B fantasma di Theresa May: inclusa quella - probabilmente minoritaria a Westminster, ma almeno non più tabù - d’un secondo referendum. È la ricetta che il leader laburista Jeremy Corbyn ha tirato ieri fuori dal cilindro, superando le esitazioni, nel tentativo di sottrarre l’iniziativa alla premier Tory per passarla al gioco trasversale del Parlamento. E provare a uscire dallo stallo. Uno stallo che allarma l’Ue sempre più con l’avvicinarsi del 29 marzo, data ufficiale del divorzio. E la prospettiva, se nulla cambia, d’un traumatico addio senza intese (no deal).

“Sollecitiamo Londra a chiarire le proprie intenzioni”, ma dal Regno Unito per ora “non c’è niente di nuovo”, taglia corto il portavoce della Commissione, Margaritis Schinas, commentando senza troppo ottimismo gli sviluppi del dibattito parlamentare dell’altro ieri ai Comuni. E avvertendo peraltro che “in caso di Brexit senz’accordo” al confine fra Irlanda e Irlanda del Nord potrebbero spuntare da un giorno all’altro “barriere fisiche”. Moniti a cui l’opposizione laburista risponde con un salto di qualità nella sfida alla May.

La scommessa di Corbyn e compagni si gioca adesso su una raffica di emendamenti presentati in queste ore che, se ammessi e approvati, consentirebbero ai deputati di votare - seppure in forma non vincolante - su varie soluzioni contrapposte rispetto al cosiddetto piano B che la premier sta cercando di elaborare dopo la sonora bocciatura della sua prima bozza d’accordo: piano B che al momento ricalca fin troppo le vecchie linee rosse del piano A. Gli emendamenti, promossi dai banchi del Labour con il contributo di qualche dissidente conservatore pro-Remain come l’ex attorney general Dominic Grieve, puntano ad allontanare innanzi tutto lo spettro del no deal, imponendo all’esecutivo l’obbligo di chiedere a Bruxelles un’estensione dell’articolo 50, e quindi uno slittamento dell’uscita dall’Ue oltre il 29 marzo, laddove May non fosse in grado di rimettere insieme una maggioranza entro il voto preliminare sui suoi piani di riserva in calendario per il 29 gennaio. O comunque al massimo entro il 26 febbraio. Ma mirano anche a verificare l’esistenza di maggioranze bipartisan spontanee su proposte alternative.

Il più significativo, firmato da Corbyn in persona, suggerisce in particolare di mettere ai voti una serie di test: da quello su una Brexit più soft che lasci il Regno all’interno dell’unione doganale e con legami forti con il mercato unico; fino appunto a quello su un nuovo “voto pubblico”. Non si tratta “in alcun modo” di voler sabotare il risultato referendario del 2016, precisa la ministra ombra corbyniana Rebecca Long Bailey, semmai di lasciare aperta ogni porta per evitare un no deal nel caso in cui la premier rigetti il compromesso. Un compromesso che del resto May - impegnata ieri in consultazioni con sindacati e imprese - dice di volere. Ma non senza insistere a respingere anche la minima idea di referendum bis come un pericolo per “la coesione sociale”, se non per l’ordine pubblico nel Regno. Mentre le incertezze inducono persino un imprenditore euroscettico ultrà come James Dyson, genio degli aspirapolvere di ultima generazione, ad annunciare il trasloco del quartier generale della sua azienda nella lontana Singapore. “La Brexit non c’entra”, giura: pochi sono disposti a credergli.


di Redazione