Turchia e Ue: matrimonio salvo?

lunedì 18 febbraio 2019


Quando la Turchia presentò domanda di adesione all’Ue nel 1987, il mondo era un posto completamente diverso – perfino il club delle nazioni ricche aveva un nome differente: si chiamava Comunità economica europea. Il presidente americano Ronald Reagan era stato sottoposto a un intervento chirurgico; la premier britannica Margaret Thatcher era stata rieletta per un terzo mandato; Macao e Hong Kong erano, rispettivamente, territorio portoghese e britannico; il Muro di Berlino non era stato ancora abbattuto; le proteste in piazza Tienanmen sarebbero avvenute due anni dopo; l’affaire Iran-Contras era d’attualità; la prima Intifada era appena iniziata; e quelle che oggi sono la Repubblica ceca e la Slovacchia, allora insieme formavano la Cecoslovacchia.

Nel marzo del 2003, pochi mesi dopo essere stato eletto primo ministro della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan dichiarò che Akara era “ben disposta a far parte della famiglia dell’Unione europea”. Nell’ottobre del 2005, presero il via ufficialmente i negoziati di adesione della Turchia all’Ue.

Oggi, 31 anni dopo, l’unione sembra non funzionare, priva di segnali che nell’immediato futuro possa celebrarsi un matrimonio tra due adulti assolutamente incompatibili. Alla luce di ciò, entrambe le parti nell’ultimo decennio hanno fatto uno spiacevole gioco diplomatico di presunzione: non essere il partner che getta via l’anello. Ma questa noiosa opera buffa non è più sostenibile.

Il deficit di democrazia della Turchia è diventato troppo enorme per renderlo compatibile con la cultura democratica dell’Europa. Secondo il gruppo di pressione Freedom House: “Oltre alle sue terribili conseguenze per i cittadini turchi detenuti, per gli organi d’informazione chiusi e per le aziende sequestrate, l’epurazione caotica è sempre più intrecciata con una offensiva contro la minoranza curda, che a sua volta ha alimentato gli interventi diplomatici e militari della Turchia nella vicina Siria e Iraq”.

Nell’indice di democrazia stilato dalla Freedom House, la Turchia appartiene al gruppo dei Paesi “non liberi”, che adempiono ai loro compiti peggio di Paesi “parzialmente liberi”, come Mali, Nicaragua e Kenya. L’Unione europea non è certamente un club di Paesi “non liberi”.

Più recentemente, un contenzioso tra la Turchia e l’Ue ha evidenziato, ancora una volta, l’enorme disparità esistente fra la comprensione dello Stato di diritto nella cultura democratica turca e in quella europea. Questa volta, la Turchia e l’Unione europea si sono scontrate sui diritti di un leader politico curdo che è stato in carcere con l’accusa infondata di terrorismo. In una sentenza emessa nel novembre scorso, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha stabilito che la Turchia avrebbe dovuto esaminare rapidamente il caso di Selahattin Demirtaş. La Corte ha dichiarato che la detenzione preventiva del leader curdo era durata più a lungo di quanto potesse essere giustificata. Ma un tribunale turco, ignorando il verdetto della Cedu, si è pronunciato contro la scarcerazione di Demirtaş. La decisione del tribunale turco è stata una chiara violazione dell’articolo 90 della Costituzione turca che recita: “Nel caso di incompatibilità tra gli accordi internazionali in materia di diritti e libertà fondamentali debitamente attuati e le leggi nazionali, a causa delle divergenze fra le normative sulla stessa materia, prevarranno le disposizioni degli accordi internazionali”.

Il ministro degli Esteri turco Mevlüt Cavuşoğlu ha affermato che la sentenza della Cedu è stata dettata dalla politica e non dal diritto e che sarebbe spettato ai tribunali turchi occuparsi del caso. Così come non ci può essere un Paese membro “non libero” dell’Ue, non può nemmeno esserci un Paese membro che ignori palesemente le sentenze della Cedu.

Fortunatamente, ci sono stati dei segnali da Bruxelles che “lo spettacolo non deve continuare”. Nell’aprile del 2017, il Parlamento europeo chiese la sospensione formale della domanda di adesione all’Ue da parte della Turchia, che era già stata di fatto congelata. Nel settembre del 2017, la cancelliera tedesca Angela Merkel dichiarò che avrebbe cercato di porre fine ai colloqui per l’adesione della Turchia all’Unione europea.

Più di recente, nel novembre scorso, la supervisione ufficiale del futuro allargamento dell’Ue ha affermato che a lungo termine sarebbe “più onesto” che il blocco rinunci ai colloqui sull’adesione della Turchia. Il commissario europeo per l’allargamento Johannes Kahn ha detto in una intervista a Die Welt: “Penso che, a lungo termine, sarebbe più onesto che la Turchia e l’Ue percorressero nuove strade e ponessero fine ai negoziati di adesione (...) l’adesione della Turchia all’Unione europea non è realistica in un prossimo futuro”. Il discorso di Kahn è stato onesto, ha detto le cose come stanno.

Di fatto, un mese prima dei commenti espressi da Kahn, il presidente Erdoğan aveva proposto una soluzione molto realistica – non per ragioni di onestà, ma solo per un bluff pre-elettorale. Evidentemente, lo ha fatto per segnalare la sua irritazione per il processo elettorale. Erdoğan sembra stia tentando di rivolgere un appello agli elettori nazionalisti stanchi dell’Ue, in vista delle elezioni amministrative turche previste per il 31 marzo 2019, che la riluttanza dell’Europa a lasciare entrare la Turchia nell’Unione europea si basa, presumibilmente, sulla “islamofobia”. In un discorso dell’ottobre scorso, Erdoğan ha asserito che avrebbe preso in considerazione l’ipotesi di indire un referendum sul proseguimento del processo di adesione della Turchia all’Ue.

Ottima idea, se si parte dal presupposto che il leader turco più popolare in assoluto dovrebbe condurre una campagna per abbandonare (i negoziati). Tuttavia, come sempre, Erdoğan stava bluffando nel tentativo apparente di ricordare ai leader dell’Unione europea il “valore strategico” che la Turchia rappresenta per l’Europa. Allo stesso tempo, egli stava facendo il duro con la sua base elettorale, in genere xenofobica e conservatrice, che si è stancata di essere umiliata dall’”Europa infedele”.

Il sottoscritto ritiene che dovrebbero essere indetti due referendum concomitanti, in Turchia e nell’Ue, che chiedano ai cittadini europei se approvano una eventuale adesione turca e ai cittadini turchi se desiderano rinunciare alla loro candidatura all’ingresso nell’Unione europea. Un trionfo dei “No” in entrambi i referendum dovrebbe essere sufficiente per porre fine al processo di adesione della Turchia; se a trionfare fosse il fronte del “Sì”, ciò significherebbe che lo spettacolo deve continuare, che il pubblico è contento dell’opera buffa. La richiesta poco convincente che la Turchia dovrebbe essere “tenuta a bada” per motivi strategici è iniqua. “Staccare la spina” è onesto, ma probabilmente non è pratico: nessuno vorrà assumersi questa responsabilità storica. Inoltre, sondaggi indicano un calo di consenso dell’opinione pubblica turca per l’adesione. Dall’altra parte, nell’Ue, il livello di consenso per l’adesione turca è sensibilmente più basso rispetto agli anni precedenti. Il sostegno a favore dell’ingresso della Turchia, ad esempio, si attesta all’8 per cento in Francia, al 5 per cento in Germania, all’8 per cento nel Regno Unito, al 5 per cento in Danimarca, al 7 per cento in Svezia e al 5 per cento in Finlandia. È impossibile che la media Ue possa superare la soglia del 50 per cento.

Pertanto, lasciamo che siano i membri del club e il candidato a decidere in merito alla domanda di adesione per un matrimonio che non funzionerà mai.

(*) Gatestone Institute

Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Burak Bekdil (*)