La lotta per l’egemonia globale

martedì 21 maggio 2019


L’impegno elettorale di Donald Trump nel 2016 sul fronte economico fu condensato nello slogan “America First”, con il quale il futuro presidente prometteva di sanzionare il “furto” dell’industria americana da parte della Cina e di altri Paesi. Il presidente americano non ha mai vacillato nella sua convinzione che i partner commerciali abbiano approfittato delle basse tariffe degli Stati Uniti per inondarli di prodotti, rubando posti di lavoro e proprietà intellettuale agli americani. E così un anno dopo essere stato eletto, Trump introduceva una prima serie di dazi punitivi del 25 per cento sui prodotti cinesi, con l’obiettivo dichiarato riportare il lavoro in patria e ridurre in deficit commerciale statunitense.

Il deficit commerciale degli Stati Uniti è dovuto quasi interamente a quattro partner commerciali: Cina, Messico, Giappone e Germania. Di questi, la Cina è il 64 per cento del totale. Dopo la conclusione di accordi commerciali con il Messico e il Giappone, il problema del deficit riguarda l’interscambio con Cina e Germania, quest’ultima da Trump chiamata eufemisticamente “Europa”. L’atmosfera tra Stati Uniti ed “Europa” non ha ancora raggiunto un livello critico, mentre con la Cina è ormai guerra commerciale. Trump, di recente, ha infatti di nuovo elevato i dazi dal 10 al 25 per cento su una gamma più ampia di prodotti annunciando aumenti sulla totalità delle esportazioni cinesi.

Non ci si illuda pertanto che la guerra tariffaria abbia un impatto limitato e che nel breve periodo le relazioni tra Stati Uniti e Cina tornino alla normalità. Non si tratta solo di tariffe. Le tariffe sono solo la punta visibile di un problema più profondo nelle relazioni tra le due super potenze. Non passerà molto tempo prima che la Cina, con una popolazione quadrupla degli Stati Uniti, diventi più potente dal punto di vista economico e raggiunga la parità militare con gli Usa. Purtroppo, la storia insegna che quando le tensioni si accumulano tra due grandi potenze, l’esito può essere lo scontro militare.

Appena quaranta anni fa la Cina era un Paese con un miliardo di poveri contadini. Non c’erano capitali. Non esisteva né tecnologia né capacità produttiva. Oggi è alla pari con gli Stati Uniti e ha la classe media più numerosa al mondo e se il trend continuerà, tra vent’anni la sua economia sarà il triplo di quella americana. Questa crescita inarrestabile la si deve anche alla “benevola” politica americana. Fu prima Richard Nixon negli anni Settanta ad aprire alla Cina spezzandone i legami con la Russia. Poi, Bill Clinton nel 2001 promosse l’accordo per far entrare la Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio come una vittoria a lungo termine per gli Stati Uniti, convinto che sarebbe diventata il loro primo mercato d’esportazione. Ma non ci voleva molto acume per capire che sarebbe accaduto esattamente il contrario.

L’offensiva tariffaria di Trump dimostra la piena consapevolezza non solo della gravità della minaccia all’economia e alla sicurezza interna degli Stati Uniti (cyber-intrusioni nelle reti aziendali e furto di proprietà intellettuale) ma anche quella relativa all’emergere di un potere egemonico globale. Oggi, l’obiettivo dei quadri politici che gestiscono il paese – il Partito comunista cinese (Pcc) – è una politica di espansione e di dominio imperialistico. La Cina, con il colossale progetto di costruzione di infrastrutture e di porti in acque profonde, la One Belt Road, mira a porre in Asia, Europa, Africa e Medio Oriente le fondamenta del suo impero, proprio come fece, prima l’Impero romano e poi, l’Impero britannico. Il primo costruendo il più efficiente e duraturo sistema stradale dell’antichità, essenziale per scopi militari; il secondo, realizzando una rete di società commerciali finalizzata a occupare territori e formarvi stati coloniali. Così anche le strade e i porti della Cina mirano a creare la base del futuro impero militare cinese.

Il protezionismo di Trump farà molto male alla Cina. Centinaia di migliaia di aziende, per ridurre al minimo l’impatto tariffario e poter ancora fare affidamento sul mercato statunitense, dovranno adeguare i loro processi produttivi. Ma il presidente americano sta giocando col fuoco e dimentica che nella cultura asiatica, “salvare faccia” è fondamentale. È pericoloso mettere l’avversario con le spalle al muro evidenziandone la debolezza senza darli un’onorevole via d’uscita.

Una soluzione tra le due superpotenze potrebbe essere un modello negoziale simile a quello degli anni Settanta, per la limitazione degli armamenti strategici tra Stati Uniti e Russia, regolamentando passo dopo passo tutte le questioni dell’intero spettro commerciale.

È quasi certo, comunque, che per molto tempo non vedremo i cerimoniali di firma e le strette di mano dei grandi trattati commerciali degli ultimi decenni. L’importante sarà che nessuno crei un incidente per scatenare una guerra.


di Gerardo Coco