Armenia: la democrazia che non c’è

martedì 19 novembre 2019


L’annunciata visita in Italia del Primo ministro armeno Nikol Pashinyan riaccende oggi i riflettori su un duplice scenario: da una parte il conflitto del Nagorno Karabakh tra Armenia ed Azerbaigian, in corso da oltre 25 anni e che ad ora non accenna a risolversi, dall’altra la situazione interna nella stessa Armenia, che solo poco più di un anno fa annunciava una svolta democratica senza precedenti. Da quasi tre decenni la regione azerbaigiana del Nagorno Karabakh e le sette regioni adiacenti dell’Azerbaigian sono sotto occupazione militare da parte delle forze armate dell’Armenia e recentemente il conflitto è tornato al centro dell’attenzione internazionale, con nuovi scenari politici, dopo che proprio il primo ministro armeno ha espresso la volontà di non volersi ritirare dai territori occupati, ribadendo l’appartenenza all’Armenia del Nagorno Karabakh con un’espressione duramente criticata a livello internazionale e la puntuale replica dei vertici dell’Azerbaigian.

Inoltre, ricordiamo che lo stesso conflitto ha comportato l’espulsione di oltre un milione di azerbaigiani, che continuano a vivere come rifugiati e sfollati interni, in contraddizione con le numerose risoluzioni delle Nazioni Unite che hanno richiamato anche al rispetto dell’integrità territoriale dell’Azerbaigian e al ritiro delle forze armate dell’Armenia dai territori occupati dell’Azerbaigian stesso.

Ma se il conflitto del Nagorno Karabakh è terreno di interesse per l’analisi geopolitica e per le relazioni internazionali, soprattutto considerata la rilevanza strategica dell’Azerbaigian, anche in termini di sicurezza per la regione, di altrettanta attualità è l’analisi della situazione interna in Armenia. Già nel gennaio 2019, pochi mesi dopo l’elezione di Pashinyan a primo ministro del Paese, in occasione della morte in carcere di Mher Yeghiazaryan, si erano levate nella stessa Armenia voci di accusa contro il governo, che evidenziavano come le aspettative riposte in quella che fu denominata “rivoluzione di velluto” fossero state tradite. “Povertà, corruzione e predominio delle oligarchie non accennano a diminuire”, era stato scritto. Alcune fonti citano come il nuovo governo dell’Armenia sia stato sorprendentemente cauto nel processo decisionale. I sostenitori del governo si lamentano del fatto che le nuove autorità sembrano incapaci di compiere passi decisivi, mentre le promesse riforme legislative nel settore giudiziario, fiscale e in altri settori sono avanzate molto più lentamente del previsto.

Un atteggiamento di critica “dall’interno”, ribadito recentemente anche in uno dei più antichi giornali della diaspora armena negli Usa, The Armenian Mirror-Spectator, sul quale è intervenuto Philippe Raffi Kalfayan, esperto in diritto internazionale. Kalfanyan evidenzia nel suo intervento come sia in termini di corruzione che dal punto di vista dell’accentramento del potere il comportamento di Pashinyan sia poco coerente, e questo è evidente nella riduzione del numero dei ministri e nell’aver dato vita ad una squadra di governo giovane e senza esperienza. Pashynian dimostra inoltre la volontà di interferire nelle questioni della Chiesa e, recentemente, anche nelle decisioni della Corte Costituzionale, comportamento, quest’ultimo, alla base dell’approfondimento su The Armenian Mirror-Spectator. L’atteggiamento di Pashinyan, a detta del giurista internazionale, rischia di mascherare un tentato colpo di stato da parte del potere esecutivo e legislativo. Agendo contro la Corte costituzionale e la magistratura in generale e facendo appello al popolo “mentre permangono le maggiori sfide economiche e sociali, il primo ministro gioca una carta politica che è probabile che perda, ma è l’Armenia ad uscirne di nuovo indebolita”, sottolinea Kalfayan. Nei giorni scorsi si è svolta nel Paese una manifestazione di protesta per chiedere la fine della persecuzione del presidente della Corte costituzionale Hrayr Tovmasyan e della sua famiglia: una situazione, a detta dell’opposizione, che riporta il Paese indietro agli anni ‘30.

L’Armenia, occorre ricordare, a causa della difficile condizione economica, e dell’isolamento a cui il perpetrare del conflitto del Nagorno Karabakh l’ha relegata, rimane fuori da tutti i maggiori progetti di investimento nella regione, e a farne le spese è la sua popolazione. Fa particolarmente riflettere che a parlare di deriva dittatoriale da parte del primo ministro sia anche un professionista armeno come Kalfayan, che spende la sua vita per la difesa dei diritti umani.

Pashynian è giunto al potere spinto dalle manifestazioni di un popolo oppresso dalla grave crisi socio-economica nel Paese. Cambiamenti positivi sarebbero giunti dalla normalizzazione delle relazioni dell’Armenia, stato povero di risorse e senza sbocco sul mare, con i suoi vicini, in particolare con l’Azerbaigian e la Turchia. Tuttavia, Pashinyan ha deciso di non fare passi positivi in questa direzione, ma di assumere una posizione negativa, che può portare all’interruzione del processo di negoziazione sul conflitto del Nagorno-Karabakh. Il proseguire in tale direzione, sfortunatamente, non promette nulla di positivo né per l’Armenia né per il futuro di Pashinyan.


di Domenico Letizia