L’Europa rinnova le sanzioni alla Siria

Tutti gli appelli giunti dal mondo cattolico e dalle numerose associazioni per i diritti umani non sono stati ascoltati. Il Consiglio dell’Unione europea ben distintosi in questi tempi per la sua inerzia a prendere decisioni vitali per i propri Paesi membri in difficoltà a causa del Coronavirus è stato invece solerte a cogliere l’ultima riunione di maggio per prorogare di un altro anno le pesanti sanzioni alla Siria. Sanzioni che esistono dal 2011, con l’inizio della guerra civile, ma che non hanno prodotto nessuno dei risultati sperati. La lunga guerra non ha tolto Bashar al-Assad di mezzo, ha creato nuove generazioni di formazioni jihadiste, ha rivelato ancora una volta che gli attori in campo sono Turchia e Russia e purtroppo ha messo una popolazione in ginocchio. Mentre divisioni corazzate si sono affrontate sul campo con il risultato che la quasi totalità del territorio è tornata sotto il controllo governativo, l’Europa riteneva di porre fine alla guerra attraverso un’autentica transizione politica, sostenendo una transizione efficace e inclusiva in Siria, promuovendo la democrazia, i diritti umani e la libertà di espressione. Si legge sul sito del Consiglio che le “sanzioni” sono uno strumento essenziale della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) dell’Ue.

Sono utilizzate dall’Ue nell’ambito di un approccio politico integrato e globale comprendente il dialogo politico, sforzi complementari e il ricorso ad altri strumenti a disposizione. Tali misure restrittive inoltre servono a salvaguardare i valori, gli interessi fondamentali e la sicurezza dell’Ue, preservare la pace e a consolidare e sostenere la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani e i principi del diritto internazionale. Ma soprattutto, sempre secondo il sito, sono elaborate in modo tale da ridurre al minimo le conseguenze negative per chi non è responsabile delle politiche o azioni che hanno portato all’adozione delle sanzioni. In particolare l’Ue si adopera per ridurre al minimo gli effetti sulla popolazione civile locale e sulle attività legali svolte nel paese in questione o con esso. Diciamo che quanto sta accadendo in Siria non corrisponde ai propositi ben delineati dai solerti funzionari europei. Le restrizioni inflitte hanno ridotto il popolo siriano alla fame. La situazione in Siria, isolata dal sistema economico e bancario internazionale, con il commercio estero azzerato, continua a peggiorare. E si dice così ogni anno da molto tempo. L’inflazione è galoppante.

Nonostante il famoso grano di Aleppo, con tali proprietà da avere indotto l’Onu a realizzare un laboratorio di ricerca, il costo del pane ha raggiunto gli 8 dollari al chilo per non parlare dello zucchero, primo bene di necessità a salire durante i conflitti, che ha superato i 100 dollari al chilo. Le sofferenze di un popolo stremato avrebbero dovuto portare l’Europa a profonde riflessioni e ad un cambio di strategia invece pare che il rinnovo delle sanzioni sia stato trattato come mero atto burocratico, senza neppure un accenno di dibattito da parte dei Paesi membri. La comunità internazionale è consapevole che Bashar al-Assad ha effettivamente vinto sul piano militare e si trova ad affrontare una nuova lotta per gestire la situazione post conflittuale. L’Europa in particolare dovrebbe definire un’agenda costruttiva tenendo conto del fatto che una transizione non è più in discussione. Se non per una visione politico-strategica lungimirante, almeno per la mera convenienza di arginare l’incessante flusso di profughi costretti a lasciare la propria terra. L’improvvida decisione del Consiglio di rinnovare inutili sanzioni che vanno a colpire gli 11 milioni di siriani già bisognevoli di assistenza umanitaria pare invece andare in una direzione tutt’altro che costruttiva. Peccato, un’altra occasione persa.

Aggiornato il 01 giugno 2020 alle ore 11:17