L’uso “religioso” del Coronavirus

lunedì 3 agosto 2020


Quando la comunicazione globalizzata ha voluto che iniziasse la diffusione dell’idea che il pianeta sarebbe stato colpito da una pandemia, il primo ambito dove questa eventualità ha creato squilibri è stato quello religioso. Dall’Asia all’Occidente, passando per l’Oriente, nelle chiese, nelle sinagoghe, nei templi, nelle moschee o in luoghi di incontro della comunità, i fedeli parlano, si incontrano, si compiacciono della loro comune fede, ma le restrizioni anti contagio hanno obbligato ad inibire tutti quei rituali necessari a creare quello status di comunità, base per un percorso collettivo e sociale condiviso. La necessità di inibire i “contagi da fede”, è stata una delle prevenzioni più immediate ad essere applicata, ricordando la diffusione della peste in Russia nel XVIII secolo, causata proprio dai credenti che in fila per baciare le icone le trasformarono in vettori eccezionali per la trasmissione degli agenti di questo batterio. Allora la conoscenza della diffusione del contagio era sconosciuta, oggi in modo abbastanza veloce la prevenzione sul contagio, causato dalla promiscuità umana, è stata ben recepita ed osservata. Proprio in Corea del Sud sembra che la fonte della diffusione dell’epidemia, esplosa all’inizio di febbraio, sia partita da un gruppo di fedeli che appartenevano ad una comunità cristiana marginale e peculiare, chiama la Chiesa di Gesù Shincheonji.

Così anche in Israele, per settimane, nelle zone abitate dagli ortodossi, le restrizioni sanitarie per il Covid-19 sono state ignorate ed anche sdegnate; la densità abitativa molto elevata ha comportato, a causa della inosservanza di dette restrizioni, una particolare diffusione del contagio (che non significa affatto condanna a morte) a Bnei Brak, sobborgo nord-orientale di Tel Aviv, che si annovera come il più grande insediamento di comunità ultraortodossa; qui il 35-40 per cento della popolazione si è dimostrata positiva al Coronavirus. Anche a Gerusalemme, il 74 per cento di coloro che risultavano positivi al virus proveniva dai quartieri ultraortodossi. Nel mondo musulmano la “storia” non cambia: in Iran, a Qom, i credenti sono stati visti ammassarsi nei santuari sciiti; come anche nella Chiesa Ortodossa russa, a San Pietroburgo, nella Cattedrale di Kazan, centinaia di fedeli hanno baciato icone durante un’esibizione delle reliquie di San Giovanni Battista di Gerusalemme; ma anche a Parigi, ignorando le disposizioni sanitarie, ad aprile una messa pasquale è stata celebrata nella chiesa di Saint-Nicolas-du-Chardonnet. Prima della pandemia (oggi direi psico-pandemia) si pensava che la globalizzazione fosse in grado di fare a meno della religione; si immaginava che la globalizzazione, non potendo annichilire la religione, la potesse limitare a nicchie o trasformarla, occultamente, in uno strumento a lei funzionale, considerandola arcaica e resistente alla gestione dalla logica e comunque non sufficientemente redditizia per l’economia di mercato. Quindi questa globalizzazione, che teoricamente appiattisce, ha intercettato quell’economia che serpeggiava tra i continenti, lasciando la religione segregata nelle classi sociali meno economicamente influenti (e più dogmatiche), muovendo sia i beni che i prodotti, ma anche gli esseri umani, la maggior parte dei quali hanno “perso” volontariamente la loro geografia e semi dimenticato la loro storia.

Tuttavia la globalizzazione ha confuso “le carte” trascinando dietro a questi spostamenti umani le loro credenze, le loro conoscenze, i loro riti, le loro pratiche, i loro valori che hanno colmato il divario tra ciò che avevano lasciato e ciò che avevano trovato, ma molto confusamente. Ma la “rivincita di Dio” al globalismo si manifesta con i “Giudizi divini”: come cita Ralph Drollinger, religioso americano filo trumpiano, che afferma che è in atto “l’ira di Dio” contro l’ambientalismo, il lesbismo e l’omosessualità; o come il pastore conservatore della Florida, Rick Wiles, che ha affermato che la diffusione del virus nelle sinagoghe è ” una punizione di Dio per coloro che si oppongono a Gesù ”; ma Yaakov Litzman, ultra-ortodosso e ministro della salute israeliano (contagiato), cosi ha risposto: ” Preghiamo e speriamo che il Messia arrivi prima della Pasqua, il tempo della nostra redenzione. Sono sicuro che il Messia verrà e ci farà uscire come [Dio] ci ha fatto uscire dall’Egitto. Presto usciremo liberi e il Messia verrà per redimere tutti i mali del mondo”. Risulta che tra le macerie dell’Isis e nella galassia del jihadismo ad esso ancora connesso, veniva detto che il virus è stato inviato “per l’ordine e il decreto di Allah” e veniva raccomandato di “riporre la loro fede in Allah e cercare rifugio in lui”, pur dando suggerimenti per prevenire la diffusione del virus.

Ora sta celebrandosi una metamorfosi; con la deflagrazione di drammi inconcepibili come la guerra, la carestia, i cataclismi e in questo caso la pandemia, le credenze generano inesauribili interpretazioni ed effetti collaterali, dai quali affiorano considerazioni politiche o di opportunismo ideologico. Brevemente e schematicamente, gli effetti sociologici che hanno le religioni, con le loro esortazioni e prescrizioni per il fedele, finalizzate alla promessa di una salvezza divina o alla minaccia di una condanna divina, oggi sono molto simili a quello che viene comunicato da chi utilizza politicamente (ed ormai con fisionomia religiosa) il Covid-19: l’inosservanza delle prescrizioni porta al contagio, magari alla morte, la promiscuità è pericolosa, lo stato di emergenza necessario, anche se martoria l’economia e la società, la sofferenza è un pedaggio da pagare per la “salvezza” e ora un nuovo look down come minaccia. In particolare escludendo i “contenuti” dogmatici e teologici delle religioni ed i “contenuti” del Covid-19 dal punto di vista sanitario, oggi i due “fenomeni” producono nella società le stesse paure, con l’unica differenza che l’utilizzo ormai sempre più religioso del Covid-19, si configura meglio con una divinità malvagia, ma tanto basta a soggiogare una società con fedi articolate, ma “abituata alla religione”, che fa poca fatica ad entrare nel vortice del dogma ignorando la razionalità e affidandosi alle “forze occulte”, che poi tanto occulte non sono.


di Fabio Marco Fabbri