Ombre cinesi verso le presidenziali americane

A un anno dall’ultimo incontro fra il Presidente americano Donald Trump e il leader supremo nordcoreano Kim Jong-un, i negoziati fra Washington e Pyongyang per la pace e la stabilità della penisola coreana sono ancora orbitanti attorno al dissidio su quale passo debba essere prioritario: la denuclearizzazione per gli americani, la fine delle sanzioni per i nordcoreani. Sin dal difficile armistizio che nel 1953 pose fine alla prima vera guerra combattuta dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, nei decenni a venire la tregua non è mai riuscita ad evolversi in una pace per la penisola. 

Sulla pace mancata si è sedimentata una crisi permanente, secondo il percorso iniziato dai nordcoreani verso la realizzazione di un’opzione nucleare per il proprio sistema di difesa, ed acuito dall’effettiva acquisizione di una capacità nucleare. Un percorso che ha seguito una traiettoria segnata dal gioco politico e diplomatico in cui sono state coinvolte non solo le due coree, ma le principali figure del quadro strategico dell’area. Come spesso accade nelle situazioni di conflitto cronicizzato, l’elemento delle armi nucleari catalizza le forze e imprime dinamiche imprevedibili a confronti sino ad allora precariamente statici. Già dall’adesione della Corea del Nord al Trattato di non proliferazione nucleare, emerse la condizionalità del completamento dell’accordo di salvaguardie al ritiro delle armi nucleari statunitensi dal territorio della Corea del Sud, necessario per la piena attuazione del regime di verifiche da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) nei siti nucleari nordcoreani[1].

Il ritiro delle armi nucleari statunitensi dalla Corea del sud è effettivamente avvenuto nel settembre del 1991, e nel novembre dello stesso anno il governo sudcoreano aveva dichiarato l’intento di denuclearizzare la penisola, impegnandosi a rinunciare non solo alla produzione o alla detenzione di armi nucleari, ma estensivamente anche a quelle tecnologie di uso duale come l’arricchimento dell’uranio o il “riprocessamento” del combustibile esaurito. Nel gennaio del 1992 entrambi i governi della penisola resero la “South-North Joint Declaration on the Denuclarization of the Korean Peninsula”[2], che in sostanza estendeva anche alla Corea del Nord tale impegno preso dai sudcoreani nel novembre 1991. A quel punto non esisteva più alcun rilievo di ordine tecnico o politico opponibile all’accoglimento delle salvaguardie della AIEA da parte dei nordcoreani, e dunque pochi giorni dopo, alla fine di gennaio 1992, i rappresentanti di Pyongyang strinsero l’accordo comprensivo di salvaguardie con l’AIEA. L’accordo fu ratificato nell’aprile dello stesso anno, e permetteva ai tecnici dell’AIEA di ispezionare i siti nucleari della Repubblica popolare democratica di Corea per verificare che non vi fossero altri usi che quelli pacifici, e per controllare che il combustibile nucleare lì disponibile fosse effettivamente congruo con quello dichiarato con regolarità dal governo, affinché non fosse surrettiziamente stornato per finalità militari.

Sebbene il clima politico e il fraseggio diplomatico fossero più incoraggianti rispetto agli anni recenti, già nel marzo del 1992 il programma missilistico nordcoreano fu stigmatizzato dagli americani, poiché esso era il naturale corollario di un’opzione nucleare che, evidentemente, non era stata abbandonata ma solo dissimulata. A fronte di sanzioni decise dagli Stati Uniti verso le industrie missilistiche della Corea del Nord, i nordcoreani stabilirono un elemento caratterizzante tutti gli anni a venire ed attualmente vigente: la necessità di una trattativa bilaterale con gli Stati Uniti quale condizione necessaria per portare avanti qualsiasi negoziato sulle armi nucleari. Nel 1993 gli americani accettarono di avviare delle trattative con i nordcoreani, mentre gli ispettori della AIEA rilevavano crescenti incongruenze nelle dichiarazioni nordcoreane. Nel 1994 Pyongyang uscì dall’AIEA ma senza ritirarsi dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare, passando gli anni successivi in dispute con l’agenzia che mal dissimulavano l’intento di mantenere le infrastrutture necessarie per percorrere un’opzione nucleare, qualora le trattative con Washington non fossero state soddisfacenti[3]. L’obiettivo del regime nordcoreano era – ed è tutt’oggi – il recupero di una piena agibilità internazionale, non vincolata da sanzioni, il che significa anche poter giocare direttamente un ruolo in un futuro processo di riunificazione della penisola, senza dover delegare ad altre potenze la propria rappresentanza[4]. D’altra parte, la dirigenza statunitense vedeva la Corea del Nord come una sopravvivenza della guerra fredda, un fossile vivente incapace di mutare a differenza della Repubblica popolare cinese o della Repubblica Socialista del Vietnam, e quindi destinato prima o poi a implodere per una crisi che il parossismo totalitario non era in grado di gestire. La privazione dei più elementari diritti civili, assieme agli effetti delle sanzioni sul commercio, che progressivamente le Nazioni Unite approvarono nei confronti del regime, avrebbero dovuto esacerbare una situazione economicamente già critica, nonostante la parte settentrionale della penisola coreana fosse stata storicamente la più industrializzata e ricca di risorse naturali.

Pyongyang non è Tripoli

Nel gennaio del 2003 la Repubblica popolare democratica di Corea recedeva dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare, segnando un salto qualitativo nelle trattative e puntando verso l’acquisizione di una effettiva capacità nucleare; l’obiettivo sarebbe divenuto allora dimostrare la potenza della propria capacità nucleare, e non solo tenere un piede nel campo del nucleare militare eludendo le salvaguardie dell’AIEA. Il che significava affrontare le difficoltà tecniche che tale scelta comportava, in un quadro di isolamento internazionale che trovava complemento nella chiusura alle influenze esterne, propugnata da Pyongyang quale garanzia di sopravvivenza del regime. Con poco meno di un anno di differenza, due regimi diversi ma ugualmente considerati “Rogue States” dagli americani avevano preso due decisioni opposte: la Corea del Nord usciva dal TNP per sviluppare un’autonoma capacità nucleare, mentre la Libia sotto la dittatura di Muhammar Gheddafi dismetteva il proprio programma nucleare nel quadro di un impegno di rinuncia alle armi di distruzione di massa. Forse Kim sarà l’ultimo dittatore della sua dinastia, certamente Gheddafi non ha raggiunto nemmeno tale caduco successo.

L’iniziativa “Pivot to Asia” promossa dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva inserito la pace e la stabilità della penisola coreana nel quadro di un riequilibrio strategico nella parte orientale del continente, dove l’aumento delle tensioni tra Seoul e Pyongyang lasciava ampliare l’influenza cinese. Pyongyang rispondeva con crescente durezza alle esercitazioni militari congiunte Corea del Sud-USA, dichiarando sin dall’ottobre 2006 il successo di test nucleari sotterranei, tenuti secondo una cadenza ricavata dalle azioni statunitensi in sostegno degli alleati sudcoreani e giapponesi, ovviamente preoccupati dai progressi nordcoreani. Alla fine del secondo mandato di Barack Obama, nonostante lo scetticismo sulla congruenza fra la potenza dichiarata dai nordcoreani e quella effettivamente raggiunta, la capacità nucleare di Pyongyang era ormai realtà consolidata[5]. Invece l’elezione di Donald Trump quale presidente degli Stati Uniti proiettò sulla penisola le incognite derivanti dalla sua inattesa vittoria. Da un lato, era noto che il presidente Trump faceva affidamento su un’azione militare come ultima risorsa per sradicare le minacce derivanti dalle armi nucleari nordcoreane[6]. Dall’altro, Moon Jae-in, presidente della Corea del Sud dal 2017, desiderava invece avere colloqui diretti con i nordcoreani, traendo le conclusioni della cosiddetta “Sunshine Policy”, cioè di quella iniziativa sudcoreana che dal 1998 al 2008 aveva appianato le tensioni con Pyongyang e incrementato gli scambi economici. La “Sunshine Policy” era stata interrotta dal 2008 fino appunto all’elezione di Moon Jae-in, che aveva ripreso tale linea offrendone al mondo una dimostrazione con la squadra nazionale congiunta, nord-sud, alle olimpiadi invernali del 2018 nella disciplina dell’hockey su ghiaccio[7].

Sebbene il rovesciamento militare del regime nordcoreano non possa essere considerato un mero proclama elettorale della campagna presidenziale di Donald Trump, ovviamente esso non è ha costituito la prima opzione del presidente degli Stati Uniti, che ha perseguito come i suoi predecessori un negoziato con la sua controparte, il dittatore Kim Jong-un, però senza particolare riguardo verso i rischi di un’escalation militare. Il che ha significato lo scarto delle ipotesi di attesa dell’inevitabile implosione del regime, in favore di una pressione diretta che, dopo i primi lampi, pare in attesa del colpo decisivo.

Singapore

Il percorso della stagione trumpiana è segnato dai tre incontri avuti con Kim Jong-un, iniziati col vertice di Singapore del giugno 2018. Il vertice nella città stato era stato convocato al culmine di una tensione crescente innescata da tre test nucleari, avviati agli inizi del 2016 e accompagnati da un pletora di test missilistici, culminati sorvolando l’isola di Hokkaido nel settembre 2017[8]. Parallelamente Kim Jong-un ha minacciato sia un attacco missilistico contro la base americana di Guam sia una riunificazione manu militari della penisola. In risposta il governo degli Stati Uniti ha inviato quattro Carrier Battle Groups (CBG) nel Nordest asiatico preparati per respingere un’invasione della Corea del Sud, avviando i piani per la distruzione dei siti nucleari nordcoreani con bombardamenti chirurgici e per l’eliminazione di Kim Jong-un e la sua cerchia. L’elezione di Moon Jae-in aveva però appianato la tensioni fra le due Coree, facendo concentrare l’ostilità di Pyongyang verso Washington, accusata di interferire negli affari interni della penisola.

Nonostante alcuni test missilistici siano falliti, l’effetto politico sugli alleati degli Stati Uniti è stato comunque notevole, così come la partecipazione apicale nordcoreana alla cerimonia di apertura dei giochi olimpici invernali del gennaio 2018 in Corea del Sud. Dopo tale occasione dal forte valore simbolico, Kim e Moon si sono incontrati a Panmunjon nell’aprile 2018 nel terzo vertice intercoreano, riprendendo con enfasi il dialogo e la cooperazione, mentre gli Stati Uniti rinnovavano l’impegno militare nel Pacifico e riprendevano in forza di questo l’iniziativa diplomatica. Kim non si è discostato dalla linea tenuta dalla diplomazia nordcoreana negli ultimi trent’anni, ed ha colto al volo l’occasione di un incontro con Trump che riprendesse le relazioni bilaterali fra Pyongyang e Washington.

La scelta di Singapore quale Ginevra d’Oriente è stata senz’altro felice, così come la copertura dei media e soprattutto l’alto livello di aspettativa verso l’incontro diretto fra i due capi di stato che non si erano certo risparmiati nell’acredine verbale reciproca. Nelle dichiarazioni congiunte sono stati richiamati impegni reciproci per la pace, la prosperità e la stabilità, formule non necessariamente di prammatica data la tensione che aveva preceduto l’incontro[9].

Il punto di rilievo è stato l’impegno di Pyongyang a perseguire il percorso avviato col vertice intercoreano di Panmunjon, verso una penisola coreana riunita e denuclearizzata[10]. Questo ha implicato il sostanziale assenso degli Stati Uniti alla riunificazione della Penisola senza il rovesciamento del regime nordcoreano, qualora il dialogo intercoreano fosse in grado di raggiungere tale obiettivo[11]. Questa disponibilità a concludere le ostilità fra Washington e Pyongyang è stata ulteriormente suggellata dalla ripresa degli sforzi per identificare i resti dei prigionieri di guerra del 1953, e la loro conseguente restituzione agli Stati Uniti[12].

La bontà dell’impegno reciproco è stata corroborata da una sospensione dei test missilistici nordcoreani e da un allentamento delle esercitazioni militari congiunte coreanoamericane: come ha affermato Trump in conferenza stampa, egli non vedrebbe l’ora di un eventuale ritiro delle forze armate statunitensi dalla Corea del Sud[13]. Tuttavia, Trump ha subordinato la fine delle sanzioni economiche alla denuclearizzazione della penisola, ponendo Kim di fronte alla scelta fra rinunciare al nucleare o perdere le concessioni offerte dagli Stati Uniti.

Hanoi

Il secondo vertice è stato tenuto ad Hanoi, nel febbraio 2019, e si è scontrato proprio con questa condizione. Le aspettative alimentate dai risultati del vertice di Singapore erano comunque elevate, sebbene nei mesi successivi non fossero emersi elementi che facessero pensare perlomeno a un’interruzione del programma nucleare nordcoreano. All’opposto della denuclearizzazione, Pyongyang proseguiva lo sviluppo della propria capacità nucleare, laddove Washington non era disponibile a revocare le sanzioni contro Pyongyang, né le esercitazioni militari su scala ridotta: lo stallo era iniziato, non per distrazione ma per contrapposizione sull’elemento fondamentale della crisi nucleare coreana, cioè il primo passo da compiere. La presidenza Trump non intendeva compiere il primo passo, anche se questo avrebbe comportato una pressione ulteriore sulla cerchia di Kim, che di fronte a un primo allentamento delle sanzioni economiche difficilmente avrebbe potuto esimersi da una sospensione del programma, o comunque da un gesto che desse prova della buona volontà nordcoreana nell’onorare gli impegni. Rispetto alle motivazioni che presiedono questo atteggiamento americano ve ne sono due piuttosto evidenti. La prima riguarda le sanzioni commerciali, che colpiscono pesantemente l’economia nordcoreana promuovendo il sommerso e il contrabbando, mentre le stesse sanzioni non vanno certo a detrimento dell’commercio statunitense, in particolare per il programma di governo economico di Trump. Nella strategia diplomatica trumpiana, se l’accordo naufragherà sarà la Corea del Nord a perdere più di tutti, e gli Stati Uniti hanno tutto il tempo necessario per attendere sia questo esito sia, in alternativa, il primo passo nordcoreano verso la dismissione del programma nucleare[14]

È difficile inoltre sfuggire alla considerazione che un accordo comprensivo che prevedesse una riduzione delle sanzioni proporzionale all’avanzamento della dismissione del programma nucleare avrebbe evidentemente richiamato il cosiddetto “Iran deal”, oggetto delle critiche feroci in campagna elettorale e stralciato da Trump una volta eletto. Trump non avrebbe replicato una formula che non ha mai condiviso, in particolare perché il “Joint Comprehensive Plan Of Action” – nome tecnico dell’accordo con l’Iran – aveva allentato le sanzioni contestualmente all’avvio delle verifiche e delle limitazioni al programma nucleare iraniano. Stigmatizzato da Trump e dai trumpiani come un accordo fallimentare e perdente per gli Stati Uniti, non poteva certo essere replicato nella sua sostanza, permettendo così al presidente di dimostrare di tenere le redini della trattativa e di non concedere niente alla controparte. Il vertice di Hanoi nasceva quindi in un contesto negativo, in cui Kim doveva riprendere l’iniziativa sul piano diplomatico per cercare di rompere lo stallo. La stessa scelta del luogo era indicativa della tensione crescente, poiché Kim non intendeva raggiungere il vertice in aereo per timore di un attacco aereo mirato subito dopo il decollo, preferendo raggiungere la capitale vietnamita su un treno blindato attraverso la Cina. Il timore dell’abbattimento del aereo presidenziale nordcoreano non può essere unicamente imputato alla paranoia di Kim, essendo un simile di attacco non escludibile, e già sperimentato nelle sue forme; ma l’alternativa del lungo viaggio in treno ha confermato sul piano sia simbolico che sostanziale la presenza cinese nella gestione attiva della crisi. Il presidente Repubblica popolare cinese e segretario del Partito comunista Xi Jinping ha offerto una via sicura alla delegazione nordcoreana, mostrando la propria disponibilità a favorire i colloqui con gli americani ma proponendo la Cina come garante degli interessi asiatici nella trattativa[15].

Ad Hanoi la delegazione nordcoreana ha chiesto pertanto alla controparte di revocare, almeno parzialmente, le sanzioni relative ad alcuni punti elencati nelle risoluzioni delle Nazioni Unite. Secondo i coreani, tali articoli riguardavano unicamente la scienza e tecnologia necessarie al sostentamento della popolazione, e in ritorno essi erano disponibili a demolire tutte le strutture nucleari del sito di Yongbyon, storicamente il principale del paese, sotto la supervisione internazionale. La delegazione americana ha rifiutato la proposta, ritenendo ormai Yongbyon non determinante per l’ulteriore sviluppo della capacità nucleare nordcoreana, pertanto Trump ha dichiarato con enfasi ai media che le sanzioni saranno rimosse solo quando la Corea sarà denuclearizzata[16].

D’altronde, i necessari aspetti tecnici della denuclearizzazione non erano stati definiti a Singapore ed altrettanto è accaduto ad Hanoi, e questo non certo per leggerezza da parte statunitense. Trump attenderà da Kim la comunicazione dell’effettiva dismissione del programma nucleare, e solo allora saranno attuate le procedure tecniche di verifica della bontà della dichiarazione. A verifica avvenuta, le sanzioni saranno integralmente rimosse. Kim si aspettava un forte sostegno da parte di Pechino e di Mosca, che invece non vi è stato, perlomeno nelle forme attese[17], e Trump ha interrotto anticipatamente il summit rimandando alla delegazione nordcoreana la responsabilità del fallimento del vertice, senza aggiornare i lavori ad alcuna data.

La DMZ

I nordcoreani, incassato il diniego, hanno ripreso ad esercitare il loro principale strumento di pressione, cioè i test missilistici[18]; fra il fallimento del vertice e il primo lancio, avvenuto nel maggio 2019, sono intercorse settimane che hanno lasciato intendere sia l’aspettativa nordcoreana verso un intervento dei russi e dei cinesi, sia le difficoltà tecniche che il programma missilistico aveva sempre incontrato. Dovendo dimostrare una capacità di proiezione missilistica intercontinentale con testate termonucleari, i nordcoreani si sono trovati di fronte una frontiera per la quale non è sufficiente far mangiare erba al popolo per trovare le risorse necessarie, secondo l’icastica espressione usata dai pachistani per il loro programma nucleare[19].

L’ultimo vertice si è tenuto il 30 giugno nella zona demilitarizzata fra le due coree, DMZ nell’acronimo inglese. L’incontro si è dato in un quadro di perdita dello spazio di manovra diplomatico di Pyongyang. Il 20 giugno del 2019 Xi Jinping si era recato in visita di stato a Pyongyang, la prima di un capo cinese dopo 14 anni, offrendo ben più della benevolenza cinese alla soluzione della crisi. Xi ha dichiarato di voler fare tutto il possibile per la pace e la stabilità in Asia, e dunque per risolvere la crisi coreana, pertanto ha invitato i nordcoreani a interrompere i test missilistici e nucleari[20], in modo da permettere l’assistenza economica cinese ai nordcoreani.

Se da parte di Kim la visita di Xi è stata usata per dimostrare che la Corea del Nord era pronta a lasciar cadere la preferenza per le relazioni bilaterali con gli Stati Uniti, cercando di nuovo la protezione cinese ma con una Cina assai diversa da quella dei tempi della Guerra di Corea, egli ha però ottenuto sostanzialmente dai cinesi una risposta analoga a quella americana, affievolendo così il vantaggio ricercato con lo spariglio delle carte. Certamente un effetto vi è stato oltreoceano, e Trump[21] ha colto l’occasione del vertice del G20 di Osaka, tenutosi il 28-29 giugno per allungare di un giorno la permanenza in Asia recandosi a incontrare Kim a Panmunjon, nella zona demilitarizzata appunto. 

Incontro di valore simbolico, data l’attenta scenografia e il solo risultato di essere tornati al tavolo delle trattative[22]. I due capi di Stato si sono incontrati al 38° parallelo, dove Trump è entrato fisicamente – primo presidente in carica degli Stati Uniti – nel territorio della Corea del Nord. Moon, ospite dell’incontro ha dichiarato che il risultato del vertice è stato far convenire entrambe le parti sulla necessità di un quarto incontro[23]. Risulta pertanto difficile considerare l’incontro come un vertice vero e proprio, quanto una mossa sulla scacchiera della crisi coreana. Ma fuor di metafora, il complesso di eventi in cui si inserisce l’incontro nella DMZ ha ormai spostato la crisi coreana nel confronto fra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, riducendo ulteriormente le possibilità di manovra dei coreani, meridionali e settentrionali[24]. Infatti, anche la politica di Moon ha risentito del fallimento del vertice di Hanoi e della ripresa della scomposta aggressività di Pyongyang, mettendo in difficoltà il consenso interno di Moon e le relazioni fra Seul e Tokyo, oggetto degli strali – non in senso figurato – dei nordcoreani. 

Prospettive?

Con l’incontro nella DMZ la mano è passata agli scambi ministeriali e alla perdurante difficoltà nordcoreana nel riprendere l’iniziativa, e quindi alla scelta di Kim di rivolgersi al consolidamento interno dopo un ciclo di vertici che non lo ha rafforzato 

In prospettiva si ravvede un’incognita che sovrasta le altre, non poche incertezze, ovvero le elezioni presidenziali degli Stati Uniti dell’autunno 2020. Qualunque sia il risultato, è difficile ritenere che la competizione fra Stati Uniti e Cina si affievolisca, anzi: la situazione di Hong Kong, e una nuova possibile crisi del Canale di Formosa vanno nel senso di un impegno maggiormente muscolare da parte di una eventuale presidenza democratica. Questo significa che la crisi coreana può prendere direzioni impreviste, dipendenti dalle relazioni intercoreane e dai colloqui attorno alla riunificazione della Penisola, troppo spesso sbrigativamente derubricati come albagie da parte di taluni osservatori. Pare evidente che gli americani non vedano come un tabù tale processo, seppur ne comprendano le difficoltà che lo proiettano in un futuro non prossimo. Anzi, un processo di riunificazione sarebbe il modo migliore per disinnescare la variabile nordcoreana e contestualmente togliere a Pechino la possibilità di usare la crisi pro domo sua, perché la riunificazione non si potrebbe dare manu militari da parte di Pyongyang. Infatti nei vertici non è mai stato messo in discussione il meccanismo di difesa in essere fra Washington e Seul, affinato nel corso di 58 anni di esercitazioni congiunte, training e cooperazione alla difesa. Non si scambi il ritiro delle armi nucleari americane dalla Corea del Sud e la recente dichiarazione di Trump sul desiderio di ritirare i soldati dalla penisola come un disimpegno o peggio ancora a un tutti a casa. Se si richiama la storia degli Stati Uniti nella Guerra Fredda, si vedrà per esempio che una delle presidenze più ostili verso il comunismo e l’Unione Sovietica, quella kennediana, ritirò i missili nucleari Jupiter e Thor dall’Italia e dalla Turchia dopo che il mondo fu sull’orlo della guerra atomica nell’ottobre del 1962, per passare ad armamenti più efficaci e flessibili come i missili Polaris in dotazione ai sommergibili americani. Questo non ha affievolito il conflitto con l’Unione Sovietica, anzi, ma ha solo causato risentimenti politici fra gli alleati atlantici perché lo strumento militare della NATO non uscì indebolito dalla crisi del 1962.

L’esempio valga per comprendere che la rinuncia alle spettacolari esercitazioni congiunte con i coreani nulla toglie all’interoperabilità costruita negli anni né tantomeno alla capacità di proiezione rapida statunitense in difesa della Corea del Sud, qualora si rendesse necessario. Né d’altronde le parole di Trump devono essere prese alla lettera, ovvero estrapolate dal contesto in cui sono state pronunciate: alcune basi americane in Corea del Sud hanno un valore strategico che prescinde dalla difesa da un offensiva da nord, e che si apprezza considerando la loro importanza verso la Cina. Dunque se riunificazione vi sarà, secondo forme difficili da stabilire, essa avverrà nel perdurare del meccanismo di difesa coreano-statunitense.

D’altronde le incertezze interne non riguardano solo Moon: pure Kim si è trovato in difficoltà dopo il fallimento del vertice di Hanoi, con dissidi fra i capi delle forze armate, una fuga sottobanco di capitali verso la Cina che combinata col blocco delle esportazioni di carbone ha messo in ulteriore difficoltà l’economia nordcoreana.

Una situazione tuttora instabile, poiché Kim ha un disperato bisogno dell’allentamento delle sanzioni per attuare il piano strategico quinquennale (2016-2020) di sviluppo economico statale. È possibile che Pechino impedisca il collasso economico della Repubblica popolare democratica di Corea, ma questo renderebbe la Corea del Nord terreno di scontro nel conflitto globale fra Stati Uniti e Cina, e il programma nucleare a quel punto poco servirebbe per mantenere l’autonomia del leader supremo Kim e del suo regime[25]. Pyongyang diverrebbe meno di una pedina, ma merce di scambio o addirittura il tramite per estendere l’influenza cinese su Seul, con Pechino che sacrifica il regime nordcoreano in cambio della distruzione del meccanismo di difesa corano-statunitense, facendo saltare l’assetto strategico delle alleanze in Asia orientale.

(*) Il Nodo di Gordio

Aggiornato il 26 agosto 2020 alle ore 12:18