Johnson sfida l’Ue sul dopo Brexit, monito Bruxelles

Botta e risposta con retorica da muro contro muro fra Londra e Ue alla vigilia della ripresa dei negoziati sul dopo Brexit, in stallo da mesi.

A rilanciare la sfida, bluff o meno che sia, è Boris Johnson fissando un secco ultimatum al 15 ottobre per un accordo commerciale con i 27, pena un no deal di fatto sulle relazioni future che il premier Tory giura di non temere; e minacciando di cambiare le carte in tavola persino sulle intese di divorzio già firmate, in particolare sul tema delicato dei confini aperti fra Irlanda e Irlanda del Nord. Una potenziale violazione dei patti, secondo la replica dura di Bruxelles, che rifiuta di farsi intimidire e ammonisce BoJo sul “rispetto del diritto internazionale”.

Il tentativo dell’inquilino di Downing Street appare quello di rovesciare la pressione su un interlocutore più forte. Con lo spettro di un no deal al quale entrambe le parti dicono di essersi preparate, ma il cui impatto nessuno è in grado davvero di quantificare (tanto più sullo sfondo della recessione economica generalizzata causata dall’emergenza coronavirus). E soprattutto con la possibile riesumazione del braccio di ferro su un dossier ad alto rischio come quello irlandese. In un discorso anticipato da Downing Street in vista della ripartenza dei colloqui a Londra fra i team guidati dai capi negoziatori Michel Barnier e David Frost, sempre più gelidi l’uno verso l’altro, Johnson indica nel Consiglio europeo di ottobre la scadenza limite per chiudere la partita in un senso o nell’altro: trovare “un accordo con gli amici europei - dice - secondo la nostra ragionevole proposta di un trattato di libero scambio standard come quello che la stessa Ue ha raggiunto col Canada”; oppure accettare l’inevitabile e “andare avanti” verso una relazione commerciale amichevole “e aperta”, ma non regolata da altro se non dalle regole del Wto, come accade fra l’Unione e la remota Australia.

Un accordo di modello canadese, prosegue, è ancora possibile, ma solo a patto che sia Bruxelles “a rivedere le sue posizioni attuali”, poiché il Regno non intende derogare dalla promessa di recuperare dopo la fine della transizione il 31 dicembre “il pieno controllo delle sue leggi, regole o acque per la pesca”, nonché il diritto di tornare a essere “un Paese indipendente”, libero tra l’altro di commerciare con qualsiasi Stato al mondo per prosperare “potentemente” in avvenire. Il tono si fa meno aggressivo in una serie di telefonate successive con altri leader come il presidente francese Emmanuel Macron, nelle quali si insite semmai sulla volontà condivisa di far fruttare il prossimo mese per puntare a una svolta.

Ma il vero colpo basso, nella percezione di Bruxelles, arriva con la conferma della decisione del governo Tory di presentare mercoledì in Parlamento un progetto di legge nazionale - denominato Internal Market Bill - che secondo Downing Street mira a imporre “chiarimenti limitati” sugli impegni già presi nell’accordo di divorzio per preservare la frontiera aperta fra Belfast e Dublino, come previsto dalla storica pace del Venerdì Santo 1998. “Chiarimenti” che nell’interpretazione di Londra dovranno garantire - anche in caso di no deal commerciale - un transito merci interno senza barriere fra Ulster e resto del Regno; ma che vengono tacciati alla stregua di “un tradimento” o di un gioco d’azzardo sia dall’opposizione laburista sia dai partiti repubblicani o moderati nordirlandesi. E che comunque - avverte la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen - non possono rivendicare a Westminster alcun potere di aggirare l’accordo di recesso, “obbligo di diritto internazionale e prerequisito d’ogni partnership futura”. Mentre il business torna già in allarme su entrambe le sponde della Manica; ma è la sterlina a pagare per ora dazio su dollaro ed euro.

Aggiornato il 07 settembre 2020 alle ore 18:02