Il mondo sembra non apprezzare la pace

Ora è la volta del Sudan. Nonostante un’opinione pubblica decisamente contraria, il Governo sudanese si appresta a sottoscrivere un’intesa con Israele e si va ad aggiungere al gruppo di Paesi arabi che già lo hanno fatto. Anche questa volta l’artefice è Donald Trump, il presidente antipatico a tutti che però ha fatto rimanere il pianeta per quattro anni senza nuovi conflitti e sta creando le condizioni per giungere a quell’obiettivo da decenni apparentemente perseguito ma mai raggiunto: la pace tra Israele e Palestina.

La comunità internazionale ha sempre criticato il principio posto a giustificazione dagli Stati Uniti per intervenire in ogni nascente area di crisi, la responsabilità di proteggere, sintetizzata con la sigla R2p, in inglese Responsibility to protect. Quando in un Paese viene registrata una sistematica violazione dei diritti umani, in base a tale principio si liceizza l’intervento a difesa della parte che subisce e così è successo in Iraq, in Siria, in Libia, in Yemen. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Trump, non solo ha mai applicato la controversa procedura, con il risultato di aver azzerato il sorgere di nuove guerre, ma ha gradualmente iniziato il ritiro delle proprie forze armate dalle aree di crisi più delicate al fine di consentire ai Paesi di arrangiarsi nell’ambito della loro sovranità. E dire che l’Italia, con la Libia, ha potuto constatare sulla propria pelle che cosa significa l’ingerenza di potenze straniere sugli affari interni di un Paese. Il fatto che gli Stati Uniti non siano più il cosiddetto “sceriffo del mondo” stranamente non piace e l’autore del nuovo corso viene delegittimato proprio da quegli ambienti un tempo critici del vecchio ruolo di regia globale. Sarebbe utile comprendere se la contrarietà è verso l’uomo e i suoi modi di comportarsi, non certo dettati da garbo e maniera, oppure è conseguente ad una sorta di nostalgia della funzione imperiale avocata dagli Stati Uniti sin dai tempi della Guerra fredda.

L’altro punto, forse non gradito a tutti, è il tentativo di ricomporre il conflitto israelo-palestinese. L’assetto che si sta realizzando in Medio Oriente sta creando le condizioni per facilitare il progetto di creazione di una “Nuova Palestina”. Le trattative in corso prevedono il termine dell’embargo a Gaza, la consegna di tutte le armi, anche quelle in dotazione ai leader di Hamas, con garanzie di sicurezza da parte della polizia della “Nuova Palestina”, la riapertura dei commerci internazionali da e per Gaza, attraverso Israele, l’Egitto o via mare attraverso la Cisgiordania, confini aperti con Israele, la possibilità per i palestinesi di avvalersi dello scalo di Tel Aviv finché non verrà costruito loro un aeroporto. L’accordo che porterà la firma di Israele e delle autorità palestinesi prevede, inoltre, che i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane verrebbero rilasciati ad un anno dalla sottoscrizione, entro un periodo tre anni. Gli insediamenti israeliani nei territori occupati resterebbero ad Israele ma i negoziatori stanno lavorando, affinché i palestinesi ricevano in donazione dall’Egitto una piccola porzione di territorio per realizzare infrastrutture essenziali a Gaza.

I finanziamenti per attuare il progetto arriverebbero dagli Stati Uniti per il 20 per cento, dall’Unione europea e per la quasi totalità dalle monarchie del Golfo. Chissà se Trump avrà il tempo per finalizzare il disegno che lo farebbe passare alla storia. I sondaggi del momento fanno propendere per il no. I bookmakers, che di solito non sbagliano, dicono di sì.

Aggiornato il 26 ottobre 2020 alle ore 12:17