Sorvoli su Taiwan: che la caccia abbia inizio

Cacciare i caccia? Che non sembri un calembour: in questi ultimi tempi, i radar taiwanesi hanno segnalato nei cieli dell’isola centinaia di sconfinamenti (con evidente intento intimidatorio) degli aerei da caccia cinesi. Il motivo è ovvio. Da una parte, la più grande potenza imperialcomunista, sopravvissuta dapprima alla catastrofe epocale del 1989 e, successivamente, a quella del 1991, sfodera gli artigli per capire quanto sia spessa la corazza della sua vittima designata. Perché, sia detto esplicitamente, prima o poi Taiwan tornerà nell’orbita della madre patria, esattamente come è accaduto per Hong Kong. Del resto, anche nell’ultimo G20 a presidenza italiana, i ministri degli Esteri di Usa e Cina, guardandosi (in cagnesco) negli occhi hanno convenuto che no, non si può proporre la candidatura di Taiwan all’Onu come Stato autonomo, dovendo tra l’altro rispettare il solenne impegno preso in passato dai presidenti americani di “Un solo Paese (la Cina stessa), due sistemi”.

Del resto, sembrava la fine del mondo quando il regime cinese di Xi Jinping si è impossessato del Parlamento e del Governo di Hong Kong, imponendo le leggi di Pechino in sostituzione di quelle locali. Poiché pecunia non olet, il fiume di migliaia di miliardi di dollari che passava per l’isola, una vera e propria Wall Street asiatica, ha continuato a scorrere anche dopo il suo ritorno in seno al Celeste Impero, in barba a tutti gli impegni solenni assunti in merito (verba volant) dalle grandi holding finanziarie occidentali. Una severa lezione per tutti noi, del Vecchio come del Nuovo Continente, che ci siamo raccontati delle belle favole sul decoupling trumpiano e sulla sua “America first”, che fa un bel paio con quello bideniano di “America is back”, ambedue altisonanti quanto inutili. Ma anche il mito del multilateralismo draghiano e bruxellois è destinato a rimanere un comizio di buoni propositi se due dei più grandi attori mondiali, come Russia e Cina, praticano la politica gaullista della chaise vide nei grandi consessi mondiali.

Loro due soprattutto, così ben complementati da sembrare quasi finti: l’Orso russo ed ex sovietico, da un lato, che ha nel sottosuolo ricchezze sconfinate e assai poco sfruttate di materie prime da offrire sui mercati internazionali, angosciati dall’aumento vertiginoso dei prezzi. La Cina che, sul versante opposto, ha assoluto bisogno delle riserve russe per la soddisfazione del suo fabbisogno insaziabile di energia come più grande economia del mondo. E soltanto una crescita economica tendenzialmente a doppia cifra potrebbe permettere a Xi di mantenere le sue promesse solenni di miglioramento collettivo delle condizioni di vita del suo miliardo e mezzo di cittadini. Ma, sul tema della difesa di Taiwan in caso di aggressione, nessuno a quanto pare sembra avere le idee chiare dalle parti di Washington.

Infatti, mentre l’attuale Presidente degli Stati Uniti si dichiara (incautamente?) a favore di un intervento militare a fianco dell’alleato (praticamente in linea con quello previsto dall’art. 5 del Trattato Nato) per difendere la sovranità di Taiwan, nel caso di un tentativo di occupazione manu militari da parte della Cina, al contrario, sull’altro versante dell’Amministrazione americana, il suo Segretario di Stato e il Deep State (invisibile e onnipresente) frenano bruscamente. Secondo Antony Blinken, infatti, il sostegno Usa si limiterebbe alla fornitura di armi, navi e aerei a Taipei in caso di aggressione, da duplicare con severe sanzioni alla Cina da parte delle istituzioni internazionali, con l’intento di penalizzarne l’interscambio commerciale con il resto del mondo.

Pio desiderio, quest’ultimo, vista l’interdipendenza politico-economica che Pechino ha saputo creare nella regione asiatica e non solo (vedi America Latina e Africa), che ne fa un potenziale mercato chiuso ben più ricco, a tutti gli effetti, di quello a guida occidentale. Allora, perché Xi dovrebbe compromettere i suoi rapporti internazionali per una sfida a viso aperto con l’America, mettendo in campo milioni di effettivi del Pla (People’s liberation army, come viene denominato l’esercito cinese) contro i quattro gatti che presidiano l’isola dissidente? La spiegazione è in qualche modo complementare a quella del ritorno di Hong Kong alla madrepatria, che ha rappresentato, in fondo, un gigantesco affare finanziario per Pechino. La riconquista di Taiwan, invece, consentirebbe alla Cina di assicurarsi il primo posto nello sfruttamento della cornucopia mondiale della produzione high-tech di semiconduttori, di cui Taipei è leader mondiale indiscusso.

Quest’ultimo aspetto di vitale importanza lo chiarisce assai bene sul New York Times del 20 ottobre il collega Thomas Friedman, con il suo editoriale “China is Becoming a Real Danger” (“La Cina sta diventando un vero pericolo”). Infatti, è proprio sul monopolio dei microchip e sullo sfruttamento del loro immenso giacimento tecnologico (per le aspettative future di reddito e di crescita nazionali) che si basano in questo XXI sec. le previsioni di sviluppo dei Paesi più avanzati del mondo. Ed è proprio su questo grumo di roccia del Mar Meridionale di Cina che si trova insediata la multinazionale leader mondiale dei microchip, più nota con la sigla Tsmc, in possesso di tecnologia e macchine super evolute per la fabbricazione di circuiti integrati da 5 nanometri (sic!), che  potrebbero addirittura scendere 3 con la nuova produzione del prossimo anno. La domanda è: come mai la Cina fa molta fatica stare dietro a questo tipo fondamentale di innovazione tecnologica? Che cosa dunque manca ai suoi wolf warriors (coloro che appartengono a livelli medio-alti della diplomazia aggressiva di Xi) per avere la supremazia in questo campo? La credibilità, risponde seccamente Friedman.

Tsmc è una fonderia per la fabbrica di semiconduttori, il che significa saper rispondere alle richieste iperspecialistiche di design esclusivo che provengono da giganti come Apple, Qualcomm, Intel. Nel corso degli anni, Tsmc ha costruito attorno al suo marchio un vero e proprio ecosistema fiduciario di condivisione della proprietà intellettuale per la fabbricazione di chips proprietari. Pertanto, al contempo, aziende all’avanguardia nella produzione dei macchinari che fabbricano semiconduttori come America’s Applied Materials e l’olandese Asml sono ben felici di vendere a Tsmc i loro prodotti migliori. Ed è proprio questo circuito fiduciario virtuoso ad assicurare a Taiwan il costante primato nella scienza dei materiali e nella litografia, che sono alla base della fabbricazione dei semiconduttori. Perché, osserva ancora Friedman, le tecnologie dell’industria avanzata dei chip sono talmente complesse che nessuno dei protagonisti mondiali può dirsi “primo” in tutte le categorie che compongono tale complessità. Motivo per cui c’è assoluta necessità di avere partners affidabili nel settore.

Un consiglio, quindi: occorre evitare che, anche in questo campo, l’Occidente subisca i contraccolpi letali prodotti nel recente passato dalle delocalizzazioni industriali e dalle catene allungate di valore. Fare di tutto, cioè, affinché non si ripeta in materia di semiconduttori il dramma planetario del Covid-19, con le forniture e le produzioni salvavita monopolizzate dalla Cina nel settore mondiale dei presidi sanitari essenziali e dei principi attivi degli antibiotici. Pertanto, nel caso di una concreta minaccia di invasione cinese dal mare e da terra, sarebbe il caso di riflettere, alla Dunkerque, sulla possibilità di un’evacuazione tempestiva in Occidente di tutto l’apparato produttivo taiwanese dei semiconduttori, indotto compreso. À la guerre comme à la guerre.

Aggiornato il 03 novembre 2021 alle ore 13:33