Etiopia, una guerra civile sul filo del disastro globale

lunedì 6 dicembre 2021


I media etiopi, sotto il controllo di Addis Abeba, hanno comunicato mercoledì primo dicembre la riconquista da parte delle forze governative dello spettacolare sito di Lalibela, patrimonio mondiale dell’Unesco, che nel mese di agosto passò sotto il controllo delle milizie ribelli del Tigray. Ricordo che Lalibela è situata nell’Etiopia centro-settentrionale, nello Stato-regione dell’Amara, nato nel 1995. Il sito Unesco si adagia su un territorio montuoso a circa 2500 metri di altitudine, è considerato un “luogo sacro” e racchiude capolavori d’arte, di cultura e di architettura come le sue chiese monolitiche scavate nella roccia. L’Etiopia fu tra i primi Paesi a convertirsi al Cristianesimo, e Lalibela fu costruita come simbolica rappresentazione di Gerusalemme per volere dell’imperatore locale, Gebre Mesqel Lalibela (1162-1221), che visitò Gerusalemme prima della sua “riconquista” da parte dei Musulmani (1187).

Tuttavia, dopo la dichiarazione del Governo etiope, c’è stata la replica del Fronte popolare per la Liberazione del Tigray (Tplf) che contesta gli annunci di Addis Abeba, confermando il completo controllo dell’area e una lenta avanzata verso la Capitale. Comunque, in questa guerra mediatica e di euforiche dichiarazioni, mercoledì il Governo ha annunciato di aver ripreso anche il controllo della città di Shewa Robit, situata a circa 220 chilometri a nord-est della capitale. Inoltre, il servizio di comunicazione del Governo ha garantito che le forze filo-governative, oltre a avere ripreso Lalibela, hanno anche riconquistato il suo aeroporto internazionale. Ha annunciato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che sono ripresi i voli umanitari dell’Onu tra Addis Abeba e Makalé, sospesi dal 22 ottobre dopo i raid aerei nella regione del Tigray. Piccoli rivoli di speranza, ha affermato Guterres, in un conflitto che da più di un anno oppone le forze filo-governative ai ribelli del Tplf.

Le note ufficiali del Governo etiope hanno ulteriormente reso noto che le forze governative stanno marciando anche sulla città di Sekota nella regione di Amhara, nel nord dell’Etiopia, e sembra che i combattimenti si sono estesi a Debre Sina, una cittadina a circa 180 chilometri da Addis Abeba, che era già stata conquistata dai ribelli del Tigray. Ma come accennato la guerra civile corre anche sulle “onde” dell’etere, infatti in un comunicato emanato mercoledì sera, dal comando militare del Tplf si negano i successi del Governo, affermando che le milizie del Tigray stavano solo svolgendo un “aggiustamento territoriale” in previsione di offensive strategiche. Nel mese di giugno i ribelli tigrini avevano riconquistato gran parte del Tigray, per poi avanzare nelle regioni limitrofe di Afar e Amhara, dove all’inizio di novembre hanno conquistato le città di Dessiè e Kombolcha, crocevia strategico sulla strada tra Gibuti e la capitale. Attualmente i combattimenti si stanno svolgendo su tre fronti, quello est, Dessiè, quello nord, Debre Sina e quello ad ovest di Addis Abeba.

Come è noto quest’area da tempo catalizza le attenzioni internazionali, essendo aperto anche il fronte, per ora solo “teorico”, tra Etiopia ed Egitto a causa della mega diga Gerd, la diga del Rinascimento etiope. Infatti, mentre Washington ha apertamente criticato la gestione della guerra da parte del presidente Abiy Ahmed, Cina e Russia sono state più caute; proprio coloro che avevano espresso il veto nell’ambito del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite riguardo alle sanzioni verso Addis Abeba in merito alla diga del Rinascimento. Così il ministro degli Esteri etiope la settimana scorsa ha riproposto, tramite Twitter, le immagini di una conferenza stampa avuta con l’omologo cinese Wang Yi, che era in visita in Etiopia. In quel contesto le dichiarazioni del diplomatico furono chiare: “La Cina si oppone a qualsiasi interferenza negli affari interni dell’Etiopia”. Un avvertimento a Washington? Anche l’Unione Africana, tramite il suo inviato per il Corno d’Africa, Olusegun Obasanjo, ha affermato l’impegno al fine di raggiungere almeno un momentaneo cessate il fuoco, ma finora i progressi sono stati nulli. Funzionari etiopi hanno precedentemente affermato che i ribelli devono ritirarsi da Amhara e Afar prima di poter trovare una soluzione pacifica, ma il Tplf ha rifiutato.

Un parziale successo militare governativo può essere attribuito a due fattori: il primo è che l’aviazione di Addis Abeba a metà settima scorsa ha bombardato la diga idroelettrica di Tekeze nel Tigray, che fornisce acqua ed energia alla regione, e si prevedono mesi di sofferenze, per la popolazione tigrina, prima di poterla ripristinare, anche considerando che da tempo ogni “rete mediatica” del Tigray è oscurata; il secondo è che le forze filo-governative stanno dispiegando droni Wing Loong di fabbricazione cinese, acquisiti dall’Etiopia in estate, dagli Emirati Arabi Uniti. Fonti diplomatiche affermano che anche Iran e Turchia sono sospettati di fornire tali dispositivi all’Etiopia, ma più che un sospetto può essere una certezza. Infatti, gli attacchi con i droni si sono intensificati da novembre. La storia si ripete, come nella guerra armena e con l’interferenza/partecipazione degli stessi attori e stessi strumenti. Afferma una fonte vicina alle Forze di Difesa Tigray (Tdf), che l’utilizzo di questi velivoli lenti, sbilancia le forze a favore di chi li utilizza, quindi i governativi e questo preoccupa gli strateghi militari del Tigray.

Dopo questi ultimi colpi di scena, Abiy Ahmed in un video del 27 novembre, ha affermato: “Fino a quando non distruggiamo il nemico, non ci sarà riposo”. La guerra è scoppiata nel novembre 2020 dopo che il primo ministro ha inviato l’esercito nella regione del Tigray per rimuovere le autorità locali dal Tplf che hanno sfidato la sua autorità e lo hanno accusato di aver attaccato basi militari. Secondo le Nazioni Unite, in quasi tredici mesi, la guerra ha causato migliaia di vittime, oltre 2 milioni di sfollati e fatto precipitare centinaia di migliaia di altri in condizioni da fame. Un’altra crisi umanitaria che vede al capezzale “l’impotenza internazionale”.


di Fabio Marco Fabbri