Burning Ucraina? L’eterna Monaco d’Europa

Tornano. Tornano sempre. Si intende, i fantasmi europei della Sora Tentenna, mitica figura della Roma ottocentesca, in cui si raffigura il carattere sempre incerto sul da farsi di una popolana ignorante che non sapeva decidersi tra Ponzio e Pilato. Sembra facile, anche oggi, dire se, tra la Russia putiniana autocratica e l’Ucraina democratica di Volodymyr Zelens’kyj valga per noi europei il detto “Tra moglie marito non mettere il dito”. Chiarisce il tutto un acuto editoriale del settimanale inglese The Economist del 4 dicembre scorso, Waiting for the freeze (“Aspettando il gelo”). Guardando alla Storia recente e passata, in effetti, Mosca e Kiev sono state unite dalla coda per quasi settanta anni nella vecchia (e mai rimpianta!) Urss comunista. Dopo l’indipendenza, dichiarata il giorno di Natale nel 1991, l’Ucraina scelse volontariamente nel 1994 di aderire al Memorandum di Budapest (in cui America, Inghilterra e Russia si posero come garanti per la sicurezza internazionale dell’Ucraina), per lo smantellamento del suo arsenale nucleare, al fine di consegnarlo poi alle potenze garanti. All’epoca, ad arricchirsi con le tangenti sul corrispondente investimento internazionale furono alti dirigenti infedeli ucraini, che sovrintendevano alle operazioni di dismissione delle basi e dei depositi nucleari.

Come accadde anche nel caso della Russia postsovietica, dopo il 1991 l’esercito ucraino fu praticamente abbandonato a se stesso, tanto è vero che fino al 2014, all’epoca dei moti filo russi nel Donbas, l’Ucraina aveva appena 6mila effettivi “combat-ready” (pronti a combattere), come risultato di decenni di disinteresse nel potenziamento dell’esercito e nell’addestramento militare, tant’è vero che i soldati erano costretti ad acquistare sul mercato di seconda mano elmetti e vestiario militare di fabbricazione tedesca, anziché russa, essendo quest’ultima di qualità sempre troppo scadente. Oggi, al contrario (esattamente come accade in Russia) gli investimenti annuali per l’upgrading delle truppe e degli armamenti ammontano al 4 per cento di Pil. Alcuni dati, per capire. l’Ucraina ha, a oggi, 250mila effettivi in assetto da combattimento e 900mila riservisti, di cui almeno 300mila tra di loro hanno fatto esperienza sul fronte. Gli aiuti Usa a Kiev ammontano a 2,5 miliardi di dollari in equipaggiamento militare, che includono sistemi sofisticati di comunicazioni radio per le truppe di terra e controbatterie guidate dai radar per rilevare il punto di partenza dei tiri avversari.

In ambito Nato, invece, l’Ucraina si è avvantaggiata della fornitura da parte della Turchia di moderni droni avanzati da combattimento, della classe Tb-2. L’America ha anche inviato missili Javelin (micidiali armi anticarro a guida infrarossi), a condizione che fossero installati a debita distanza dalla linea del fronte, dove Mosca sta ammassando migliaia di veicoli blindati d’assalto. Putin ha da tempo fissato per l’Ucraina la sua invalicabile linea rossa, per cui mai e poi mai Kiev deve entrare a far parte della Nato. E si capisce bene il perché: se l’Ucraina ne fosse stato membro all’epoca dell’annessione della Crimea e del dispiegamento di truppe russe nel Donbas, la clausola dell’art. 5 della Nato avrebbe già condotto “tutto” l’Occidente dentro un conflitto aperto con Mosca. Restano, tuttavia, molti (anzi: la stragrande maggioranza) a non credere che l’ammassamento di truppe alla frontiera con l’Ucraina sia prodromico a un’imminente invasione via terra. L’Europa potrebbe pure tremare dal freddo per il taglio delle forniture energetiche da parte di Gasprom, ma per i russi sarebbe molto peggio di un assedio a Stalingrado, per quanto riguarda i mancati scambi commerciali e la totale interruzione delle importazioni alimentari; per non parlare degli immensi danni collaterali indotti all’economia russa dalla chiusura delle frontiere e dal crollo del turismo.

Del resto, se l’Ucraina chiedesse oggi di entrare nella Nato creerebbe non poco imbarazzo a Bruxelles, visto che è stata già attaccata dalla Russia in un recente passato e di certo Mosca non rinuncerebbe mai a fare del confine ucraino una “buffer-zone” (zona-cuscinetto) inviolabile per proteggere i propri confini! Kiev non demorde però, e ha in programma un’escalation nelle sue esercitazioni congiunte con altri Paesi Nato. Ma nemmeno Bruxelles potrebbe mai accettare supinamente il diktat di Mosca a tenere ben lontani dall’Ucraina truppe e missili occidentali. Così come noi, per la verità, non possiamo escludere, né impedire un blitzkrieg russo che affondi non troppo in profondità nel territorio ucraino, per poi dare modo a Mosca di congelare la situazione sul terreno, previo intervento dell’Onu, inchiodando così l’Occidente al tavolo di estenuanti (e di certo non brevi) trattative per evitare la guerra. Del resto, malgrado le rodomontate dei generali ucraini, se la Russia li attaccasse sarebbe come ai tempi di Hitler con Paesi Bassi, Polonia e Cecoslovacchia. Il divario tra le due armate slave è incolmabile: i bombardieri russi possono colpire ovunque, come e quando vogliono, avendo la Russia l’assoluta supremazia in cielo, terra e mare (in quest’ultimo caso, l’Ucraina non ha più una Sua squadra navale, annientata durante l’invasione russa della Crimea!). 

Ma, ci si chiede: Vladimir sta, o no, giocando con noi una mano di poker? Sì, certo. La pandemia e l’economia stanno facendo tremare dall’interno il suo regno, per cui la risorsa del nazionalismo e la difesa delle sacre ragioni della patria sono ottimi antidoti per gettare fumo negli occhi a un’opinione pubblica russa, che fatica a far quadrare i bilanci familiari e a curarsi adeguatamente. Ci sarebbe, però, una grandiosa mossa del cavallo da fare, se non fossimo tutti noi dei Don Abbondio, da un lato, e dei grandi opportunisti dall’altro. Ovvero: proporre a Putin un’alleanza nuova di zecca “RUE” (“strada” in francese!), Russia + Europa, proprio come hanno fatto Trump e Biden con “Aukus” (Australia + Uk + Usa), in funzione anticinese, per contrastare le mire espansionistiche di Pechino nel Mar Meridionale di Cina. Con RUE, tra l’altro, diventeremmo i più ricchi del mondo per cultura, scienza e materie prime, energia compresa.

Ma potrebbero mai Tolstoj, Rachmaninov e centinaia di mostri artistici come loro (patrimonio comune del Vecchio Continente!) essere posti fuori dalla cristianità e dai valori culturali e universali dell’Europa e dell’Occidente? Eppure, Berlino, Parigi, Paesi Bassi e quelli dell’Europa dell’Est fanno orecchie da mercante, nel timore di contare “zero” dentro un colosso come “Rue”. Ma agli italiani davvero importerebbe qualcosa, se fosse il gigante comune a dettare legge negli scenari globali e internazionali?

Aggiornato il 08 dicembre 2021 alle ore 10:46