E gli americani rimpiangono Trump

Da come l’avevano impostata i media mainstream, sia americani che europei, la vittoria di Joe Biden alle elezioni del 2020 era stata accolta dai cittadini statunitensi quasi come una “manna dal Cielo”. Finalmente “gli adulti” sono tornati alla Casa Bianca. Finalmente si sono liberati di quella specie di presidente, un po’ improvvisato, un po’ cowboy e molto demagogo che era Donald Trump: così commentavano nelle trasmissioni televisive e titolavano i giornali.

Peccato che, sondaggi e statistiche alla mano, sembrerebbe non essere esattamente questo il pensiero degli americani. Il gradimento dell’attuale presidente è ai minimi storici: al quarantaquattro percento, per l’esattezza. Sono in molti a credere che Biden stia pagando il prezzo delle sue scelte in materia di politica estera e di politica economica, anzitutto per la decisione di ritirarsi frettolosamente dall’Afghanistan e per le stimolazioni del mercato interno, che hanno comportato inflazione e aumento delle tasse, oltre che del debito pubblico. Sarebbero sempre di più gli americani “nostalgici” di Donald Trump: secondo loro, durante la presidenza del tycoon, il Paese era più sicuro, più rispettato a livello internazionale e più indipendente.

A dispetto dell’intenzione dichiarata sin da subito da Joe Biden, già all’atto del suo insediamento – di risanare le ferite inflitte dall’era Trump all’America, di riportare unità laddove il populismo di destra del suo predecessore aveva portato divisione e conflitto – gli Stati Uniti si confermano un Paese profondamente diviso e dilaniato al suo interno. Semmai, la presidenza di Biden e il ritorno al potere da parte delle élite democratiche ha acuito questa conflittualità, giacché le divisioni interne al Paese non sono più solo razziali o determinate dalle differenze socio-economiche, ma anche politiche, con l’elettorato repubblicano che propende sempre di più per il “trumpismo” e che è divenuto allergico all’establishment del partito; e quello democratico sempre più arroccato sulle sue posizioni e che, addirittura, si sente investito di una sorta di “missione”, che è quella di difendere la democrazia dalla minaccia populista e dalla demagogia di destra.

A nulla sono serviti i maldestri tentativi di screditare Donald Trump, facendolo passare per golpista (dopo l’assalto a Capitol Hill da parte dei suoi sostenitori) e per evasore fiscale: gli americani continuano a essere – inaspettatamente, a dire il vero – legati non alla figura dell’ex presidente, ma a quello che rappresenta. Piaccia o no, Trump raffigura non solo l’americano medio (ma non per questo mediocre), ma anche il “vero americano”. È capace di interpretarne i sogni, le paure, le aspettative e le aspirazioni: è in contatto con la realtà sociale, con la vita reale delle persone, come diciamo spesso in Italia. Al contrario, la sinistra americana – proprio come quella italiana – è chiusa nella sua autoreferenzialità e incapace di comprendere le vere esigenze della popolazione.

Forse è proprio questo che fa la differenza e che spinge gli americani ad avere nostalgia di Trump: gli Stati Uniti non stanno diventando un covo di pericolosi populisti, ma si tratta di un Paese che il “trumpismo” ce l’ha nel sangue. I democratici, per contro, hanno tradito l’eredità morale e culturale dei Padri fondatori e della Rivoluzione americana.

L’America, come si dice spesso, è un “Paese fondato sulle armi”: è quindi chiaro che gli americani saranno più propensi a sposare le tesi di un presidente che quelle armi le vuole libere e che raccomanda a ogni cittadino onesto di possederne una per difendere se stesso, la sua famiglia e la sua casa. Per contro, i democratici sostengono che quelle armi, che pure sono servite ai loro antenati per conquistare la libertà ribellandosi al giogo inglese, sono pericolose e il loro possesso dovrebbe essere assoggettato a una regolamentazione molto più severa. Privare i cittadini perbene dei mezzi per difendersi e non fare nulla per combattere il crimine dilagante (anzi, i criminali vengono compatiti e visti come “vittime” di un sistema fondamentalmente ingiusto) è il modo migliore per distruggere una società e farla sprofondare nel caos e nella paura.

L’America è un Paese fondato sulla mentalità puritana, qui intesa non nell’accezione comune, cioè come sinonimo di bigottismo o di ottusità, ma nel senso di sentirsi in qualche modo “predestinati”, investiti cioè di una grande missione: quella di edificare la “Nuova Gerusalemme”; una sorta di città ideale fondata sulla libertà, sul lavoro, sull’intraprendenza e sull’autonomia dell’individuo; uno “spazio sacro” inviolabile e destinato ai soli “eletti”. Trump incarna perfettamente questo spirito con il suo proposito di rifare grande l’America, di proteggerla dagli immigrati che portano criminalità, disordine e parassitismo, di riportare il lavoro nelle mani degli americani e di smantellare progressivamente il sistema di welfare – voluto dai democratici – per fare in modo che ciascuno dipenda unicamente da se stesso, dai suoi sforzi e dalle sue capacità e per far sì che gli antidoti alla povertà ricomincino a essere il lavoro e l’intraprendenza.

L’America, piaccia o no, è un Paese fondato da bianchi cristiani (perlopiù protestanti) e che ha prosperato grazie agli sforzi e alle capacità di questo gruppo etnico. Quegli stessi bianchi cristiani ai quali Trump è stato capace di restituire voce e importanza, dopo la presidenza di Barack Obama e la scoperta, da parte dei democratici, desiderosi di ottenere l’appoggio dei movimenti radicali e di estrema sinistra (tipo Black Lives Matter), della giustizia sociale reinterpretata su base etnica e del politicamente corretto. La vittoria di Trump, sotto un certo punto di vista, è stata proprio la rivincita di quella America delle origini, stanca di essere bistrattata e di essere considerata come l’incarnazione del male assoluto, dello sfruttamento e dell’oppressione.

L’America è un Paese fondato sul capitalismo. Potremmo dire che la scintilla che fece scoppiare la Rivoluzione e che pose le basi per l’indipendenza nazionale fu proprio il desiderio di essere liberi dal punto di vista economico, ancor prima che politico. Cosa fu, infatti, il “Boston Tea Party” se non una rivendicazione di libertà economica rispetto all’oppressione fiscale e al monopolio commerciale cui le colonie erano soggette? Che ne è, a distanza di due secoli e mezzo esatti, di quella libertà? Compressa e conculcata dalle folli politiche interventiste, redistributive e welfariste, avviate dai governi democratici – dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt, più o meno – ma solo minimamente ritoccate dai successivi governi repubblicani, eccezion fatta per l’era di Ronald Reagan. Trump è stato capace di riportare in auge quell’antico spirito del Boston Tea Party: quello di una nazione che aspirava a farcela con le sue forze, a essere indipendente e che vedeva i vincoli fiscali e burocratici all’economia come il fumo negli occhi.

In una parola, a far rimpiangere Trump è semplicemente il desiderio, da parte dei cittadini americani, di riscoprire le loro radici culturali e di ripartire da quelle, per restituire lustro e grandezza al loro Paese. Probabilmente, i nostri fratelli d’Oltreoceano hanno compreso che il declino morale e materiale degli States è iniziato da quando ci si è allontanati dallo spirito originario e autentico, dalla tradizione nazionale. Trump non è che il segno di questa presa di coscienza. I presidenti o i governi non cambiano i popoli: sono i popoli che si danno i governi secondo il sentimento dominante. Ma, allora, come è stata possibile la vittoria di Biden? Come mai gli americani non hanno riconfermato Trump per il secondo mandato? Anche lui ha fatto degli errori, come tutti. Il peggiore, probabilmente, è stata la gestione dell’emergenza sanitaria nella sua fase più acuta: confusionaria e poco coerente, diciamocelo pure. Il secondo è stato quello di non saper mantenere rapporti cordiali con l’Unione europea. Perché è chiaro (e lo dico da isolazionista) che nessun Paese, per quanto grande, può affrontare da solo le sfide dinanzi alle quali ci pone il mondo globale: ha bisogno di allearsi con altri, culturalmente e politicamente affini. Più che andare allo scontro con l’Europa, anzitutto coi dazi, Trump avrebbe forse dovuto cercare di convincere il Vecchio Continente della solidità dell’Alleanza atlantica e darsi l’immagine di una sorta di “protettore” dell’Occidente rispetto al blocco russo-cinese e a quello arabo. Per ragioni di brevità mi fermerò qui.

Queste sono cose che hanno pesato molto sull’esito delle elezioni del 2020, senza contare che Biden ha potuto godere di molti più finanziamenti per la campagna elettorale e dell’appoggio dei mezzi d’informazione, quasi completamente schierati a suo favore. Ma il trumpismo non è morto: sopravvive nell’anima di quegli americani che ancora credono nel loro Paese. E fin quando vivrà nel cuore degli americani, potrebbe tornare a vincere, come temono le élite democratiche d’Oltreoceano, che non a caso si prodigano per delegittimare ed estromettere Trump dai giochi politici con la macchina del fango mediatica e con l’uso politico della giustizia. Che abbiano imparato dai loro consimili italiani?

Aggiornato il 21 gennaio 2022 alle ore 11:02