Congo: guerre etniche all’ombra dell’oro

domenica 15 maggio 2022


L’8 maggio nella Repubblica Democratica del Congo, uno degli Stati africani più stabili, circa settanta persone sono state uccise in una miniera d’oro malamente strutturata, ubicata nei pressi di unarea denominata “Camp Blanquette”. Tale sito si trova in una zona boschiva a circa otto chilometri dalla città di Mungwalu nel territorio di Djugu, nella provincia di Ituri, area sotto controllo del famigerato gruppo armato Codeco, Cooperative for the Development of Congo, autore della strage. La milizia Codeco viene considerata come uno dei gruppi armati più pericolosi ed è localizzata nell’est del Paese. La loro missione, di cui si sono nominati attori, è quella di difendere i membri della comunità etnica dei Lendu dalle aggressioni della comunità rivale degli Hema e dalle forze di sicurezza statali, ma attaccano anche gli operatori umanitari di qualsiasi nazionalità. E soprattutto le migliaia di sfollati che sfuggono da questa pericolosa area.

Al fine di gestire quel minimo di amministrazione e combattere contro le decine di gruppi armati, anarchici oppure organizzati, che flagellano il Congo orientale da quasi trenta anni, la provincia del Nord Kivu e la vicina provincia di Ituri sono state poste in “stato di assedio” dal 6 maggio 2021. E sono, quindi, guidate dai militari che hanno sostituito i civili nell’Amministrazione. Il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, sottoscrivendo questa ordinanza ha conferito pieni poteri alle Fardc, Forze armate congolesi e in subordine alla polizia. Ma nonostante l’opprimente autorità conferita alle Fardc, non riescono a eliminare le violenze e i massacri della popolazione civile. Inoltre, da quando è stato istituito un anno fa questo eccezionale regime di sicurezza nelle due province congolesi, i massacri si sono moltiplicati. Tuttavia, il generale Sylvain Ekenge, portavoce del governatore militare del Nord Kivu, il 4 maggio ha affermato che dall’introduzione dello “stato di assedio” la situazione “sta migliorando” e la popolazione è rassicurata dalla presenza dei soldati governativi, aggiungendo che: “Nemmeno un centimetro del territorio passerà sotto il controllo di nessun gruppo ribelle”.

Ma nonostante gli annunci e le rassicurazioni, il bilancio generale è abbastanza cupo. Molte sono le bande che continuano ad agire nell’area: oltre Codeco anche le Adf, Forze Democratiche Alleate. Inoltre, le Adf hanno un “profilo” anche più articolato rispetto ad altre aggregazioni “fuorilegge”. Infatti, originariamente erano costituiti da ribelli musulmani ugandesi che poi hanno fatto riferimento allo Stato islamico, per poi aggregarsi alla versione africana dell’Isis, cioè allo Stato islamico nel Grande Sahara. Per oltre venti anni hanno depredato, rapito, violentato, rubato e ucciso civili. Le Adf, dall’inizio dello stato di assedio, hanno aumentato la propria area di influenza, nonostante che dalla fine di novembre 2021 sia stata avviata un’operazione antiterroristica congiunta tra l’esercito del Congo e quello ugandese, con lo scopo di stanare questi gruppi che operano anche sotto la bandiera del loro jihadismo.

Come in tutte le guerre su base etnica o comunitaria, l’interpretazione dei conflitti è abbastanza articolata. Nel caso degli scontri tra l’etnia Lendu, agricoltori, e l’etnia Hema, allevatori e agricoltori, va anche oltre. La gravità della situazione si accentua, anche perché entrambi i gruppi si identificano, già da tempo, con le etnie Hutu e Tutsi al centro del genocidio ruandese (Belgio docet). Questo “prestito ideologico”, sottolineato anche dalla associazione Human Rights Watch, aggrava pericolosamente il conflitto fra le due comunità. I Lendu si identificano con gli Hutu e gli Hema con i Tutsi. Ciò porta la percezione della diversità identitaria su livelli drammatici, sdoganando ogni azione violenta nei riguardi dell’altra etnia. Va detto che questi “estremi” non ci sono o sono scarsamente percepibili. Ma tanto basta, come sempre, a creare nemici mortali su basi inesistenti.

In conclusione, questa articolata catena di violenze porta allo spostamento massiccio e alla fuga degli abitanti dal territorio di Djugu, che, secondo l’Unhcr, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dal 2018 ha registrato lo sfollamento di un milione di disperati verso l’Uganda e le zone limitrofe. La devastazione non fa prevedere, in tempi brevi, il ritorno degli sfollati nelle aree colpite, in quanto hanno perso tutti i loro beni e ogni mezzo di sopravvivenza. Si tratta dell’ennesima tragedia umanitaria fuori dal radar delle informazioni, perché probabilmente non è fonte di lucro.


di Fabio Marco Fabbri