Teheran senza veli, boia ai mullah!

lunedì 26 settembre 2022


Bruciare lo Hijab (velo islamico), come succede a Teheran? Sì, potrebbe essere davvero il primo step per dare fuoco alle polveri di una sommossa di popolo che porti alla caduta dell’odiatissimo regime dei Mullah. La colpa di tutto, però, è dell’islamismo misogino e arcaico in cui si riconosce il movimento di fanatici religiosi musulmani che predica e mette in pratica il ritorno alla purezza del Corano, facendo fare all’Umma (comunità mondiale dei credenti in Allah) un salto all’indietro oscurantista di 1500 anni. Un vero e proprio tradimento di quella cultura araba che tanta parte ha avuto nel passato per il progresso dell’umanità, grazie al contributo dei suoi pensatori, scienziati, filosofi, scrittori e poeti.

Ma tra poco quei fanatici sciiti del Corano avranno verosimilmente l’atomica (mentre gli estremisti pakistani sunniti già ce l’hanno!) e sanno usare i kalashnikov per fare strage di chi protesta, senza che per simili, atroci misfatti i miliziani responsabili facciano un solo giorno di galera. E per tutta risposta, che cosa fanno le anime belle, donne di sinistra occidentali, in particolare? Strillano e protestano in piazza, senza mai rischiare un solo colpo di fucile ad alzo zero, come le loro povere e meschine sorelle iraniane. Morale: vista la parità assoluta uomo-donna, invece di fare le prefiche le donne d’Occidente dovrebbero indossare divisa, fucile ed elmetto per mettere a tacere con le armi e con le cattive questo orrore (Afghanistan compreso), come fecero gli uomini maschi di un tempo con il nazismo.

Vale appena la pena di ricordare, a proposito del ritorno alla purezza delle origini del messaggio, che nel caso del leninismo una simile circostanza ha causato la morte nei gulag di decine di milioni di esseri umani, che non avevano sparato un solo colpo contro il regime. Eppure, dalla caduta dell’Urss in poi nessuno ne parla in questi termini, non avendo mai neppure letto o sfogliato la ricostruzione storica che ne fa Le livre noir du communisme, di Stéphane Courtois e altri, in cui gli orribili crimini staliniani (che hanno totalizzato parecchie decine di milioni di vittime!) sono analizzati impietosamente nel loro dettaglio crudele e spietato. Allora, perché meravigliarci tanto di questo Occidente vigliacco che cento ne pensa e nessuna ne fa concretamente in difesa dei famosi “diritti umani”? Hanno voglia a tagliarsi i capelli in pubblico e dare fuoco ai loro veli le coraggiose ragazze e donne iraniane, che protestano contro l’uccisione da parte della polizia “morale” della studentessa di appena 22 anni, Masha Amini, rea di essersi vestita in “maniera non appropriata” (sic!). Stavolta, però, a quanto pare, non sta nemmeno funzionando la repressione del regime che ha ordinato di sparare sulla folla indifesa, facendo parecchie decine di vittime tra i manifestanti, in cui le donne hanno marciato in testa a tutti, uomini compresi. Scandalo nello scandalo, a quanto pare.

The Economist del 24 settembre, nel suo editoriale sull’Iran, dal titolo “Burning their hijab” (“Quando bruciano i veli”), fa risalire l’attuale giro di vite delle autorità islamiche iraniane, per quanto riguarda il rispetto della più rigorosa ortodossia islamica, a una sorta di “messa in sicurezza del regime” per dare tempo ai mullah di trovare un successore all’ottuagenario erede di Khomeini, la Guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei, che in questi ultimi anni ha estromesso dalla vita politica del Paese l’ala più moderata, privilegiando quella più radicale, di cui è espressione l’attuale Presidente iraniano, Ebrahim Raisi.

E l’origine degli attuali disordini sta proprio in un suo recente decreto, che porta il titolo “Hijab e Castità”, con cui si danno ulteriori poteri di controllo sulla moralità pubblica ai miliziani della buoncostume (chi si ricorda che qualcosa di simile è esistito anche in Italia, per quanto riguarda la prevenzione della prostituzione e degli atti di libidine in luogo pubblico?), soprattutto nel caso delle condotte femminili, essendo tutto l’impianto coranico, com’è noto, d’impronta decisamente misogina. Cosicché gli zeloti di regime hanno prontamente rimosso i poster di donne senza velo, obbligando i gestori dei bar e dei punti di ritrovo a sostituire le canzoni con la sola musica strumentale. I miliziani della buoncostume islamica, vestiti di nero e armati di manganelli, hanno condotto molte centinaia di donne in centri di “rieducazione” per raddrizzarne la condotta morale. Dal punto di vista del mantenimento dell’ordine pubblico, le unità antisommossa della polizia vengono affiancate dai famigerati bassidjis, una specie di ausiliari ben noti per la loro violenza.

Ma per il regime non sarà tanto facile, stavolta, venire a capo della protesta visto il “ralbole” (o “ras-le-bole”, grido di guerra di chi non ne può più di una certa situazione) dei cittadini iraniani, che ne hanno abbastanza delle riforme mancate da quindici anni a questa parte. La protesta è divampata in una cinquantina di città, di cui il Kurdistan, regione di origine di Mahsa, rimane l’epicentro. Al grido di “Donna, vita, libertà” (vedi Le Figaro del 24 settembre, con il suo “Iran: le pouvoir opte pour la répression”) si sono unite varie fasce di popolazione giovane e meno giovane. Per tutta risposta, i responsabili del sistema giudiziario islamico hanno fatto sapere che i manifestanti violenti, responsabili del danneggiamento di beni pubblici, saranno puniti senza alcuna indulgenza, che in Iran vorrebbe dire dover scontare parecchi anni di prigione per sedizione.

Per di più, i mullah hanno bloccato i social network per impedire l’organizzazione dal basso della protesta. Secondo alcuni autorevoli analisti internazionali, se i manifestanti hanno deciso di scontrarsi apertamente con le forze di sicurezza, questo significa che siamo in presenza di forte malcontento popolare, che sta determinando nuove forme di solidarietà tra le varie componenti sociali. Rispetto al 1979, anno in cui Khomeini prese il potere e gli energumeni radicali dei Guardiani della rivoluzione inveivano contro le donne al grido “Ya rusari, ya tusari” (“copriti o soffri!”), la battaglia per la moralità è divenuta progressivamente più tecnologica. Infatti, attualmente le autorità islamiche hanno in progetto l’utilizzo dei software di riconoscimento facciale per individuare le donne che non indossino il velo sui mezzi pubblici.

Addirittura, una nuova icona è andata ad arricchire l’App Snappl dei taxi, in modo da monitorare i passeggeri di sesso femminile che non rispettino il “dressing-code”, ovvero il corretto abbigliamento islamico. Ovviamente, anche la popolazione-bersaglio femminile ha preso le proprie contromisure, scaricando la App Gershad in grado di segnalare e di monitorare la posizione delle squadr(acc)e della buoncostume. Tuttavia, temendo azioni di rivalsa da parte della polizia morale, alcuni manifestanti hanno preferito cancellare i loro profili social, mentre altri ancora hanno fatto ricorso alla violenza. Secondo quanto riportato dai media di Stato, infatti, si sarebbe verificata una serie di linciaggi di chierici islamici, mentre almeno otto fedeli raccolti in preghiera sarebbero stati accoltellati in una moschea a Sud di Shiraz.

Ma le proteste non hanno soltanto un fondamento laico, dato che i mullah temono molto più la crisi economica che da anni tormenta l’Iran a causa dell’embargo occidentale. Qualche numero, per intenderci. A partire dal 2012, il reddito medio pro-capite è passato da più di 8mila dollari a meno di 3mila, mentre viceversa i prezzi al dettaglio sono in continuo aumento. Uno dei motivi di questa decrescita assai infelice è dovuta alle restrizioni e alla rigida censura su Internet imposta dal regime, che ha impedito di fatto lo sviluppo del lavoro da remoto e la creazione di imprese che utilizzano la risorsa del digitale. Finora, il governo iraniano non ha dato cenni di cedimento: gli è sufficiente mezzo milione di devoti zeloti per controllare 84 milioni di cittadini! Invece di cedere alle piazze, è indubbio che le violenze della polizia e le conseguenti vittime continueranno fino a che non avrà fine la protesta. A quel punto, potete stare certi, sostiene The Economist, citando un testimone in loco, che i padri si terranno ben strette le figlie a casa, per non rischiare di perderle sotto i colpi d’arma da fuoco delle milizie islamiche. Il regime (di maschi) traballa ma non cadrà. E le attiviste del #Metoo dov’è che stanno? Al calduccio delle loro dimore americane che non temono il taglio del gas russo, perché ne hanno in abbondanza a casa loro!


di Maurizio Guaitoli