Le donne del Sudan e le speranze infrante

Le dinamiche migratorie sistematicamente balzano all’attenzione dei media internazionali e destano alternativamente preoccupazione, o giubilo a chi con esse ha a che fare. Le notizie e le analisi su questi flussi vengono trattati prevalentemente dal Paese di partenza (imbarco), al punto di arrivo; il tragitto, per quello che ci riguarda di mare, è il punto focale di questo Sistema di affari che si protrae all’interno delle Nazioni accoglienti. Un aspetto che spesso resta poco noto è il dramma che perseguita questi spostamenti, dove le donne che sfuggono a oppressioni e violenze, restano impantanate in situazioni parimenti dolorose. Osservando questa corrente si nota che il Sudan è un grande “esportatore” di migranti che partono dal loro Paese per dirigersi prevalentemente in Egitto. Il rapporto tra Khartoum ed il Cairo è formalizzato con accordi che facilitano l’ingresso dei sudanesi in Egitto, come una convenzione stipulata nel 2004 che assicura la libera circolazione dei cittadini dei due paesi su entrambi i lati del confine. Questa intesa garantisce il diritto di lavorare, formare imprese e possedere terreni. Inoltre al Cairo sono nate numerose scuole aperte da sudanesi ed alcuni quartieri come Ain Shams o Faisal, dove i sudanesi abitualmente abitano, ha fatto raddoppiare i prezzi delle abitazioni.

Il Sudan è un Paese al collasso: inflazione a tre cifre, esportazioni dimezzate, imposizione fiscale schizofrenica, scioperi continui senza il minimo effetto, speranze dei più giovani quasi nulle, drammatica perdita dei pochi diritti conquistati delle donne. Il consolato egiziano di Khartoum è preso d’assalto quotidianamente da sudanesi che sperano in un visto per emigrare, ciò crea un business per le organizzazioni che offrono il servizio di trasporto. Decine di autobus vengono noleggiati ogni giorno per il Cairo lungo il tracciato stradale che costeggia il Nilo; risulta che la domanda di trasporto è raddoppiata nell’ultimo anno. Ma i sudanesi cercano fortuna anche nei Paesi del Golfo, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita.

L’Egitto è una tappa metodica della migrazione dal Sudan; secondo l’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, questo anno decine di migliaia di sudanesi, senza discriminazioni di classe, si sono stabiliti in Egitto, aggiungendosi ai quattro milioni già presenti nel Paese. Ma fonti egiziane stimano in circa sei milioni la presenza dei sudanesi in Egitto. Per molti la tappa successiva è la Libia e poi l’Europa.

Ma il Sudan è un Paese plurigolpista e, a poco più di un anno dal Colpo di Stato, le donne sono state le prime vittime dell’urto di ritorno. Così, dopo che il generale Abdel Fattah Al-Bourhane ha guidato il golpe del 25 ottobre 2021, la giunta militare ha fatto deragliare la transizione politica avviata dopo la rivoluzione del 2019.

Infatti nell’agosto 2019, il governo, allora guidato da Abdallah Hamdok, aveva suscitato entusiasmi abrogando le leggi relative all’ordine pubblico che, da trent’anni, criminalizzavano abiti e pratiche ritenute indecenti; vittime le donne che subivano fustigazioni e umiliazioni. Inoltre era stata adottata una legge che vietava la mutilazione degli organi genitali, inoltre furono firmati accordi internazionali per garantire i diritti delle donne. Ma dopo il golpe di un anno fa le condizioni per le donne sono precipitate nuovamente nel baratro. A fine giugno una giovane donna accusata di adulterio è stata condannata a morte tramite lapidazione dal tribunale di Kosti, cittadina situata a trecento chilometri a sud di Khartoum, anche se tale sentenza dovrà passare in appello. Infatti Hala Al-Karib, direttrice regionale del Siha, Iniziativa strategica per le donne nel Corno d’Africa, denuncia che è ancora in vigore il codice penale introdotto nel 1991, particolarmente duro nei confronti delle donne. Il colpo di stato militare ha portato il regime islamista nuovamente al potere e le normative precedentemente adottate risultano siano per nulla osservate.

Ricordo, fonte Nazioni Unite, che circa l’ottantasette per cento delle donne sudanesi, con età compresa tra quattordici e quarantanove anni, ha subito l’escissione o l’infibulazione o altra mutilazione genitale. Anche se il governo golpista di transizione ha generalizzato il divieto alle mutilazioni a livello nazionale, e che sono previste tre anni di carcere per chi le pratica, questi divieti sono per lo più ignorati, ma soprattutto inosservati dalle famiglie che vedono in questa brutale violenza la tradizione.

Oggi le donne lottano tenaci contro il potere golpista-militare, con marce ed assemblee, ma se le attiviste incrociano posti di polizia, magari indossando pantaloni, jeans o maglietta, anche con il velo, rischiano di essere tratte in arresto, se non subire violenza. Dal giorno del Golpe, il 25 ottobre 2021 l’associazione Hadhereen ha denunciato cinquanta casi di aggressioni sessuali commesse dalle forze dell’ordine, registrando anche tredici stupri il 19 dicembre 2021, data del terzo anniversario dell’inizio della rivoluzione contro Omar Al-Bashir.

Quindi un dramma nel dramma, non solo donne iraniane o afgane, le più sotto i riflettori, ma anche le sudanesi nel mirino di devianze religiose, dei frustrati aguzzini, strumentali al possesso, all’oppressione ed alla sottomissione, artefici, nel caso Sudan (ma non solo), anche le invalidanti mutilazioni.

Aggiornato il 28 novembre 2022 alle ore 09:59