Rivolta da Covid: come ribellarsi ai lockdown

Dall’inglese “Covid unrest”, oppure come ribellarsi ai lockdown voluti dal Governo cinese, scendendo in piazza per sfidare i diktat presidenziali. A questo punto, che cosa farà Xi Jinping? Deciderà di reprimere nel sangue le proteste o cederà per un alleggerimento delle chiusure, che oggi blindano in casa intere megalopoli di decine di milioni di abitanti, pur sapendo che la fine delle restrizioni provocherà qualche centinaio di migliaia di vittime tra gli anziani nell’inverno che sta arrivando? Può Xi rischiare di perdere il suo prestigio dinnanzi al resto del mondo, dopo aver dichiarato di aver vinto la sfida con le democrazie sul Covid, proprio grazie ai rigidi lockdown che a suo giudizio hanno premiato le scelte del regime autocratico cinese contro il lassismo dell’Occidente? Il cedimento però potrebbe venire proprio dalle autorità locali, poste sotto pressione dalle manifestazioni popolari che chiedono la fine dei lockdown, perché in fondo i laboriosi cittadini cinesi preferiscono morire di Covid piuttosto che di fame! A questo punto, politicamente, il vero problema è rappresentato dalla presunta “infallibilità” del leader maximo (le cui frasi sono state addirittura recepite nel testo riformato della Costituzione cinese!) che dovrebbe smentire se stesso, rinunciando alla retorica delle chiusure anti-Covid. Ora, per prassi generale, se sfidato, un autocrate assoluto reagisce con uno scontato riflesso repressivo, scatenando polizia ed esercito, a meno che (cosa oggi del tutto improbabile!) questi ultimi non passino dalla parte dei rivoltosi, decretando la fine del regime.

Tutto fa presupporre, guardando ai comportamenti del passato, che anche la leadership cinese di oggi non tollererà alcuna sfida alla sua autorità. A fine novembre, si è assistito a Shanghai a una serie di violente manifestazioni in cui veniva criticato il metodo antiscientifico adottato dalla Cina per il contenimento della pandemia, basato su test di massa, quarantene e lockdown. E, ovviamente, tanta gente in piazza ha fatto salire il numero di contagi a 40mila quotidiani per quattro giorni consecutivi: un dato di assoluto allarme per gli standard di Pechino, aggravato dall’atteggiamento dei manifestanti che a Lanzhou hanno distrutto i presidi sanitari per la somministrazione dei test anti-Covid.

Immaginificamente, proprio per evitare la censura e il conseguente arresto per sedizione, al posto di sfilare con striscioni e cartelli per scandire gli slogan della protesta, i manifestanti di Shanghai hanno innalzato fogli bianchi, inchiodandoli poi agli alberi prima che la polizia potesse stracciarli. Gesto inutile quest’ultimo, perché tutti i cittadini cinesi, vedendo quelle immagini, ne hanno immediatamente capito il significato di “bavaglio” (bianco, per l’appunto) a negazione della libertà di espressione. Tra i manifestanti c’era chi esibiva fiori come simboli del lutto e altri ancora arrivavano a chiedere persino le dimissioni del presidente Xi, con la protesta che dilagava fin dentro le mura delle università di Nanchino, Shanghai e Pechino. Decine di migliaia di giovani, studenti e lavoratori tra i 20 e i 40 anni, sono scesi in piazza a manifestare, mentre nella stessa capitale i cittadini comuni contestavano i responsabili locali della sicurezza per la chiusura dei loro quartieri.

A protestare sono soprattutto le giovani generazioni digitali connesse con il resto del mondo, alle quali il regime con i suoi lockdown ha impedito di viaggiare e ne ha limitato, se non cancellato, la libertà di espressione (vedi Le Monde, “En Chine une flambée de colère inédite depuis Tiananmen”). Così al riparo del nazionalismo, i giovani hanno intonato l’Internazionale e sottolineato i passaggi libertari dell’inno nazionale, un canto rivoluzionario in cui si invoca “Alzatevi in piedi genti se non volete più essere schiave!”. E, paradosso tra i paradossi, propri questi versi rivoluzionari sono stati “oscurati” dalla policy di Weibo, l’analogo cinese di Twitter! Così come i brevi filmati (videoclip) delle proteste sono stati censurati dai media ufficiali ma condivisi all’infinito sui social, che con i loro clic vanno molto più veloci delle forbici! Così, su milioni di smartphone sono girate le immagini che ritraevano slogan dipinti sui muri dell’Università di Pechino in cui si invocava “più cibo e meno tamponi!” (vedi, tra gli altri, il Financial Times del 28 novembre, dal titolo “China rocked by protests as zero-Covid anger spreads”). La protesta è dilagata spontanea quando una decina di persone, rimaste chiuse in casa dall’esterno, sono arse vive nella città di Urumqi, capitale dello Xinjiang, a causa di un incendio divampato durante il lockdown, che ha visto i mezzi dei vigili del fuoco rimanere a una distanza non operativa rispetto all’edificio in fiamme, nel rispetto degli standard di distanziamento anti-Covid. Versione quest’ultima contestata dai responsabili della sicurezza, che hanno attribuito alla sosta selvaggia l’impedimento al soccorso, mentre i residenti continuano a sostenere di non essersi potuti allontanare dalle proprie abitazioni a causa delle ferree misure imposte dal lockdown, poi attenuate dalle autorità locali nel timore di ulteriori disordini.

La protesta sociale in atto (cosa mai vista finora in Cina, con moltissimi giovani che, per la prima volta, hanno trovato il coraggio e la gioia collettiva di scendere in piazza ed esprimersi liberamente!) rappresenta un’autentica sfida agli strumenti di controllo e sorveglianza di massa, con i riconoscimenti facciali e i crediti sociali messi a punto per la creazione dei relativi Big Data durante il regime di Xi. Ma, come già evidenziato, attenuare le misure draconiane connesse con la politica di “zero-Covid” risulterebbe fin troppo imbarazzante e un segno di debolezza per la leadership cinese. Ulteriori disordini anti-lockdown sono stati segnalati a Guangzhou e a Pechino, con migliaia di operai in stato di agitazione che si sono violentemente scontrati con le forze antisommossa nella maggiore fabbrica di assemblaggio degli iPhone, presso l’impianto industriale di Foxconn a Zhengzhou. I lavoratori immigrati erano esasperati dalle restrizioni loro imposte dal lockdown e dalle sue ricadute negative sui trattamenti salariali a causa della scarsa qualità della manifattura, non in linea con gli standard richiesti, per cui non sono stati loro riconosciuti e pagati i premi di produzione, a fronte di condizioni sanitarie e di lavoro indecenti, secondo quando denunciato dal Financial Times. Contrariamente al passato, quando questo tipo di manifestazioni erano isolate a una o due città soltanto, oggi le proteste si propongono a livello sistemico, al punto che i giornali di regime sono costretti a fare argine alla protesta, sostenendo il Governo cinese perché difenda la vita delle persone, e invitandolo di conseguenza a non fare passi indietro rispetto alle politiche di contenimento del Covid.

Nel clima diffuso di protesta si sono ritrovati a lottare uniti operai dell’industria, commessi, studenti ed élite urbane, che hanno sofferto in vario modo del clima plumbeo dei lockdown, subendo perdite economiche o d’affari per non potersi muovere all’esterno delle zone chiuse di residenza. Se all’inizio della pandemia solo alcune grandi realtà urbane come Wuhan avevano subito le conseguenze del totale isolamento anti-Covid, negli ultimi mesi la situazione è molto cambiata e i disagi hanno colpito numerosi grandi insediamenti urbani del Paese, per cui la maggior parte della popolazione urbanizzata si è ritrovata nelle stesse difficoltà e con identici disagi della Wuhan delle origini. Difficilmente, però, il potere centrale sarà disponibile a fare concessioni che darebbero modo di far credere ai suoi cittadini che la protesta paga. Ma è il tempo stesso, tuttavia, a giocare contro i dirigenti del Partito Comunista: da un lato, il sistema sanitario è vicino al collasso, essendo obbligato ogni giorno a fare milioni di tamponi alla popolazione residente, mentre la qualità della vita delle persone si degrada ogni giorno di più, a causa degli effetti della bassa crescita economica. Del resto, l’allentamento delle restrizioni, per le condizioni in cui si trova oggi la Cina, caratterizzata da un forte invecchiamento della popolazione, potrebbe causare qualcosa come un milione di morti tra la popolazione più anziana, ad oggi scarsamente vaccinata. Alle restrizioni anti-Covid (milioni di cittadini sono stati confinati per mesi nei loro condomini, chiusi dall’esterno con cancelli mobili e catene) sono stati associati numerosi suicidi e decessi come quello di un bambino di soli tre anni, deceduto perché i suoi genitori non son stati in grado di portarlo in ospedale. Per non farsi mancare nulla, c’è per di più in piedi la solita questione etnica, con rappresentanti della comunità uigura che hanno denunciato come alcuni loro concittadini dello Xinjiang siano stati lasciati morire per denutrizione, reclusi nelle loro case. Non sarà un “Holodomor”, ma poco ci manca!

Aggiornato il 03 dicembre 2022 alle ore 12:01