Comunisti incompetenti e sconfitti dal virus

martedì 24 gennaio 2023


Che fine ha fatto il “Libretto Rosso” del vangelo maoista? È stato sostituito da quello “Giallo” dello Stellone cinese nell’era del nazional-comunismo capitalista di Xi Jinping che, come si vede, tiene in piedi più di un ossimoro nella sua definizione per essere credibile! Infatti, non ci crede affatto, tra gli altri scettici “Blu” (colore che riunisce i democratici di Joe Biden e gli europei della Ue), il Wall Street Journal (Wsj) che ha bollato come fake il “China’s mith of communist competence”. E, per ora, non si vede come dargli torto. Dal punto di vista eminentemente economico, le drastiche misure di contenimento adottate in precedenza dalla Cina hanno comportato altissimi costi per i bilanci pubblici centrali e locali, causando la caduta verticale dell’export e delle vendite al dettaglio, fenomeno quest’ultimo che ha contribuito a ridurre drammaticamente il tenore di vita di una parte consistente della popolazione cinese. Più di recente, paradosso dei paradossi, lo “U-turn” del “liberi tutti” dai controlli di massa anti-Covid ha generato una seconda, meno nota ma dolorosissima carambola per i lavoratori del Dragone, sia nel caso degli addetti ai mass-test e ai controlli casa-per-casa (i così detti “big white”, per le loro tenute da tuta spaziale), sia per i lavoratori delle aziende farmaceutiche e manifatturiere che provvedono alla fabbricazione di tamponi e di test reagenti. Con lo “U-turn” centinaia di migliaia di addetti al settore sono rimasti all’improvviso disoccupati e senza salario, proprio in corrispondenza dell’Anno Lunare, quando si dà fondo ai risparmi per pagarsi i viaggi e portare doni ai familiari lontani. Da qui, un’ondata di violente proteste, di cui dà un ampio resoconto il New York Times con “Zero Covid’ workers clash with Cina’s Police”.

Più in generale, la decisione del Governo centrale, di imputare ai bilanci delle collettività locali la spesa relativa ai test giornalieri anti-Covid per la popolazione residente, si è drammaticamente sommata ai già altissimi costi sostenuti dalla amministrazione decentrata per l’educazione scolastica, l’indennità di disoccupazione e i trattamenti pensionistici. Sono così rimaste indietro materie vitali d’intervento degli enti stessi, per quanto riguarda il potenziamento della rete idrica e il risanamento ambientale. Storicamente, negli ultimi tempi i bilanci dei governi locali cinesi sono entrati in una profonda crisi finanziaria, a causa della creazione di una immensa bolla immobiliare (di cui gli enti stessi sono ampiamente corresponsabili) che, tuttavia, ha assicurato loro negli ultimi anni il 40 per cento degli introiti, derivanti dalla vendita di terreni demaniali a società operanti nei settori immobiliari e nella realizzazione di infrastrutture industriali. Ed è proprio la grave crisi immobiliare in atto ad aver causato il quasi default dei bilanci delle collettività locali, provocando il conseguente rallentamento dell’economia cinese, tant’è vero che la disoccupazione (soprattutto giovanile) è aumentata a novembre del 6,7 per cento nelle 31 più grandi città del Paese. Per cercare di arginare i danni sistemici causati dalla bolla speculativa dell’immobiliare cinese, foriera di enormi rischi per la stabilità finanziaria della Cina stessa, Xi Jinping ha adottato nel 2022 un’iniziativa radicale di deflazione. Di conseguenza, le imprese private del settore immobiliare sono state obbligate per legge a ridurre drasticamente il proprio livello di indebitamento, mentre si è provveduto contestualmente a contingentare l’intervento di “bailout” da parte dello Stato, per rilevare società immobiliari private a rischio di fallimento.

Le uniche misure autorizzate, ai fini del rilancio della crescita economica, riguardano gli investimenti in spesa capitale, per cui è consentita la concessione di credito da parte dei governi locali alle imprese che si occupano di sviluppo delle infrastrutture e di potenziamento dell’export. Misure queste ultime che, secondo il Wsj, saranno tuttavia di scarsa efficacia nel risollevare l’economia cinese a causa dell’invecchiamento della popolazione, coniugato all’eccesso dell’offerta in campo immobiliare e alla saturazione della rete infrastrutturale di trasporto. Del resto, è ovvio che gli anziani non si spostino e troppi immobili di abitazione rimangano invenduti, a seguito della forte diminuzione del numero di giovani coppie alla ricerca di una casa: infelice conseguenza quest’ultima della politica scriteriata del figlio unico! Per tutte queste ragioni, il Governo cinese sarà nuovamente costretto a rilanciare l’export, dato che difficilmente potranno essere i consumi interni a crescere, fintanto che i cittadini saranno costretti al risparmio forzato per far fronte alle forti spese sanitarie conseguenti alla ondata generalizzata di Covid.

Le famiglie cinesi, infatti, sono oggi costrette a impiegare un terzo del loro risparmio annuale per fare fronte alle spese sanitarie (che vanno ben oltre l’equivalente delle cure private negli Usa!), a causa della scarsa assistenza sanitaria pubblica. Per di più, rimane molto alto in Cina il gap tra città e campagna per quanto riguarda gli indicatori di povertà, alimentazione, formazione scolastica, opportunità economica. E questo spiega la ragione per cui Xi Jinping, invertendo in parte la rotta precedente, stia cercando di recuperare il rapporto con quei Paesi europei che sono tra i principali importatori di beni prodotti in Cina. Ma, per il Wsj, la politica più appropriata è che l’Occidente rimanga sull’offensiva, per contenere l’espansionismo mercantile di Xi e individuare il modo di sminuire la “narrativa” del Partito Comunista, a proposito del mito della competenza politico-economica e della superiorità del modello cinese nel mondo. In particolare, vanno mantenuti (per quanto riguarda gli Usa) i dazi di Donald Trump, pari a 300 miliardi di dollari, sull’import dalla Cina e individuati drastici limiti all’acquisto di tecnologia occidentale avanzata da parte di Pechino. Idem, per quanto riguarda il flusso di investimenti occidentali per finanziare ricerca e produzione in Cina di tecnologie sensibili. Ultima misura ritenuta efficace: rimuovere dai listini delle borse statunitensi le società cinesi che non ottemperino alle prescrizioni sugli audit, fissate dal regolamento della Commissione americana per gli scambi in borsa.

Anche se, da questa parte dell’Atlantico, è proprio il Financial Times (“Halting China’s grow cannot be the West goal”) a tirare il freno a mano rispetto alla politica di “decoupling” Occidente-Cina. Mandare in recessione la Cina, osserva in merito Gideon Rachman, significa condannare Noi a fare la stessa fine! E se facciamo il tifo affinché esploda l’enorme bolla immobiliare cinese saranno anche le nostre borse mondiali ad andarci di mezzo e pagarne le conseguenze. In più, aggiunge Rachman, c’è in ballo una questione morale: “Davvero vogliamo che 1,4 miliardi di cinesi diventino più poveri di oggi?”. Almeno egoisticamente, vale la pena di pensarci su, visto che gli investimenti cinesi pesano non poco sia in Paesi africani che nelle Americhe. Sta ai decisori politici scegliere se mantenere il modello economico che si basa sulla globalizzazione o, al contrario, preferirne un altro basato sulla competizione (autodistruttiva) tra grandi potenze. I cinesi hanno da sempre chiamato il primo uno schema “win-win”, in cui tutti hanno da guadagnare dalla stabilità del sistema economico e dalla cooperazione internazionale sui cambiamenti climatici. Certo, Pechino ha le sue belle responsabilità in questo nuovo confronto tra potenze, grazie al suo impressionante riarmo e all’insorgenza del nazionalismo interno, molto aggressivo nei confronti di Taiwan e dei Paesi che si affacciano sul Mar Meridionale di Cina.

Se Xi dovesse vincere la sfida con l’Occidente nel confronto tra grandi potenze, non sarebbe meno pericoloso nel caso opposto di una sua sconfitta! Quindi, per Rachman non è il confronto a muso duro tra la Cina e Noi da perseguire, ma semmai di rispondere positivamente alla domanda di come “intendiamo affrontare il suo aumentato peso nel mondo”. Il nostro obiettivo, quindi deve essere quello di “modellare un ordine mondiale tale da rendere assai poco conveniente per la Cina perseguire le sue politiche aggressive!”. Sante parole.


di Maurizio Guaitoli