La tragedia di Khojaly e l’importanza della giustizia per la riconciliazione

Mercoledì 22 febbraio, presso il Senato della Repubblica, su iniziativa del senatore e diplomatico Giulio Terzi di Sant’Agata si è svolta una conferenza stampa dedicata all’analisi dello scenario internazionale e all’importanza della giustizia per la riconciliazione e il peace-building, trentuno anni dopo la tragedia di Khojaly. Ai lavori hanno partecipato: il senatore Giulio Terzi; il senatore Salvatore Sallemi; il consigliere Emanuele Farruggia; l’ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian in Italia, Rashad Aslanov e il presidente della Federazione italiana diritti umani – Comitato italiano Helsinki, Antonio Stango. Abbiamo cercato di approfondire la storica tragedia di Khojaly e l’importanza di sviluppare azioni diplomatiche affinché simili scempi all’umanità non accadano più. La mattanza di Khojaly avvenne sullo sfondo dell’aggravamento delle tensioni tra gli armeni e gli azerbaigiani nel Karabakh e dell’allargamento degli scontri tra le forze armate di occupazione armene e l’esercito regolare dell’Azerbaigian. Soldati armeni arrivarono a Khojaly nella giornata del 25 febbraio 1992, dando inizio a uccisioni e non distinguendo tra civili e militari. Con l’arrivo del giorno 26, allo scoccare della mezzanotte, gli scontri, già tremendi, avrebbero assunto le sembianze di una pulizia etnica. L’Azerbaigian, con l’aiuto di organizzazioni non governative come Human Rights Watch e grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, ha dimostrato pubblicamente il massacro e poi ha dato vita ad una campagna globale di sensibilizzazione e di ricerca della verità storica, mentre l’Armenia non ha mai riconosciuto le responsabilità del massacro. Dinamiche e vicende che ricordano cosa stanno accadendo, nella nostra attualità, alle porte dell’Europa. Nel tentativo di comprendere l’importanza di tale evento e di continuare a tener vivo il dibattito e il ricordo del massacro di Khojaly, intervistiamo Antonio Stango.

Rilanciare l’importanza della giustizia per la riconciliazione e il peacebuilding, trentuno anni dopo la tragedia di Khojaly appare estremamente importante per la nostra attualità geopolitica e diplomatica. Possiamo approfondire?

Partirei da una considerazione di fondo: nulla di quanto accadde a Khojaly sarebbe avvenuto se fosse stata rispettata, secondo il diritto internazionale, l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, del quale Khojaly era ed è parte. I confini non devono mai essere cambiati con la forza, in quel caso come in altri. Del resto, l’occupazione, da parte di forze armene e di milizie armene irregolari, di diverse province dell’Azerbaigian durante la guerra dei primi anni Novanta non è mai stata riconosciuta da alcuno Stato: significativamente, benché questo possa sembrare paradossale, nemmeno la stessa Armenia riconosce la cosiddetta “Repubblica del Nagorno Karabakh”. Il controllo de facto su quell’area rende però l’Armenia responsabile di quanto vi è accaduto in termini di crimini di guerra e contro l’umanità. Dopo molti anni, ma mentre è ancora drammaticamente vivo il ricordo di quella tragedia fra i superstiti e tra i familiari delle vittime, è necessario che sia pronunciata giustizia su quanto accadde, in modo da poter giungere a una storia condivisa e quindi a una riconciliazione. In questo caso – come per altri eventi, anche in corso – il motto “non c’è pace senza giustizia” è perfettamente applicabile.

Khojaly è divenuto il tragico teatro del più grave massacro, per modalità e dimensioni, della guerra del Nagorno Karabakh: una vera e propria pulizia etnica condotta velocemente e con una brutalità disumana. Cosa possiamo ricordare di tale vicenda?

Il 26 febbraio del 1992 gli abitanti di Khojaly che non avevano abbandonato le proprie case precedentemente, a causa degli attacchi armeni, tentarono di uscire dalla cittadina e di raggiungere un’area protetta da reparti azerbaigiani, in un corridoio che gli assedianti avevano comunicato come sicuro. Forze armene e militari di un reggimento ex sovietico, ancora di stanza nella regione ufficialmente a disposizione della Comunità di Stati indipendenti, ma che agiva piuttosto come una banda armata, aprirono il fuoco sui civili, uccidendone secondo il governo dell’Azerbaigian oltre 600 e rendendone invalidi molti altri, inclusi anziani e bambini. Human Rights Watch, con una missione sul posto, accertò allora non meno di 600 vittime, stabilendo che erano stati uccisi indiscriminatamente civili disarmati. Molte testimonianze hanno descritto episodi di particolare crudeltà. Sono dunque senz’altro stati commessi crimini di guerra, in violazione di precisi articoli delle Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949, nonché in generale crimini contro l’umanità, definibili – secondo lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale – come atti “universalmente riconosciuti non permissibili ai sensi del diritto internazionale” e “commessi nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro le popolazioni civili”. Il controllo dell’area da parte armena ha però impedito lo svolgimento di regolari indagini giudiziarie sul posto.

Come può intervenire la comunità internazionale per evitare che simili tragedie non si ripetano nel corso della nostra storia?

Istituzioni per la giustizia internazionale esistono e dovrebbero essere rafforzate. Oltre alla Corte europea dei Diritti umani di Strasburgo, che può intervenire solo come ultima istanza dopo l’esaurimento di tutti i livelli di giudizio interni a uno Stato parte, considero un grande progresso la costituzione della Corte penale internazionale, il cui Statuto è entrato in vigore nel 2002. Ritengo sia importante che molti altri Stati si uniscano ai 123 che lo hanno già ratificato, divenendo parte di quel meccanismo; in ogni caso, la Corte non può condurre indagini né svolgere processi per fatti accaduti nel territorio di uno Stato prima della sua adesione, di una sua esplicita richiesta o di un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Può avere un ruolo anche la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, che però non giudica i crimini (la cui responsabilità è di individui), ma agisce essenzialmente come un organo di arbitrato, analizzando casi ed emettendo pareri e decisioni alle quali gli Stati possono accettare di conformarsi. Questo presuppone già una volontà da parte dei diversi governi di porsi con rispetto nei confronti l’uno dell’altro e, se dopo un conflitto, la loro disponibilità a raggiungere un’effettiva pacificazione. Esistono poi meccanismi di mediazione e piattaforme di dialogo multilaterale. Rispetto al Karabakh, ad esempio, nell’ultimo anno, il presidente dell’Azerbaigian e il primo ministro dell’Armenia si sono incontrati più volte in diverse di queste sedi e ritengo che vi siano ormai alcune precondizioni sufficienti a negoziare un trattato di pace. Occorre, dunque, che si faccia tutto il possibile per evitare nuove tensioni.

Aggiornato il 24 febbraio 2023 alle ore 13:57