La guerra e il sonno della Ragione

Una nuova polemica è stata innescata dall’iniziativa pacifista di Michele Santoro che, dal palco dell’Eliseo, ha dato voce a quanti in Europa e nel mondo, ma persino tra la popolazione della martoriata Ucraina, si oppongono alla narrazione della inevitabilità della guerra. Pace ‒ parola che, oggi, paradossalmente, suona quasi scabrosa ‒ da perseguire, per via negoziale, pur a costo di concessioni e riconoscimenti reciproci. Dopo dodici mesi di questo tragico conflitto, sono sempre meno coloro che credono che le ostilità possano cessare con la sconfitta sul campo di uno dei due belligeranti. La proposta di pace cinese, sdegnatamente e troppo frettolosamente rifiutata da Zelensky, poteva essere un punto di partenza. Almeno per un cessate il fuoco.

Paolo Mieli, invece, condanna il numero crescente di persone “sensibili alle ragioni di Putin”, immemori delle atrocità attribuite agli invasori e pronti a scambiare libertà per sicurezza (che strano, in epoca pandemica, però, era il contrario), perché ‒ sostiene ‒ la libertà ha un prezzo e la pace non può essere fatta a spese dell’Ucraina. Sia concesso ribattere che, nemmeno la guerra, può essere fatta a spese e sulla pelle altrui: chi predica lontano dal fragore delle armi, come fa Mieli, si guarda bene dal pagarlo in prima persona questo prezzo, mettendo a repentaglio la propria vita o quella dei propri figli.

Scrive il New York Times che migliaia di giovani ucraini sono sotto processo, ricercati o in carcere perché si rifiutano di prendere le armi: disertori, renitenti alla leva, rifugiati all’estero. A uomini adulti, in età di leva militare, la legge marziale di Zelensky ha vietato l’espatrio. Ai suoi cittadini maschi tra i 18 e i 60 anni ‒ incluso chi si oppone per motivi religiosi, come i testimoni di Geova ‒ non è consentito obiettare e rifiutarsi di imbracciare il fucile. Da noi si acclamano, giustamente, quanti fuggono dalla Russia, per sottrarsi alla coscrizione, ma si biasimano le decine di migliaia di ucraini riparati all’estero per sfuggire all’arruolamento, perché non vogliono prendere le armi contro un coetaneo, magari parente, che combatte sul fronte opposto o perché rifiutano di essere sacrificati nel tritacarne di una guerra sanguinosa e inutile. È triste che quella generazione che ieri cercava asilo oltreconfine, in Canada, per evitare di essere spedita in Vietnam o manifestava contro la guerra nelle piazze e negli atenei di tutto il mondo, oggi, imbolsita e impinguita, faccia il tifo, in nome della libertà e della sovranità, per la continuazione del massacro. Con le vite di altri, ça va sans dire. È stato detto che se è nobile sacrificare la propria vita per il proprio paese, non vi è alcuna nobiltà a togliere la vita a un altro essere umano o, ancor più, a obbligare altri a farlo. Neppure, come scriveva il drammaturgo Friedrich Dürrenmatt, quando si pretende di farlo in nome della Patria che, spesso, è solo la parola con cui “si fa chiamare lo Stato ogniqualvolta si accinge a uccidere”.

Aggiornato il 27 febbraio 2023 alle ore 13:09