Africa oggi

Il Gas for Africa Report 2023 descrive un dato comune a tutto il Continente: la contraddizione. L’Africa possiede l’8 per cento delle riserve mondiali di gas, ma è l’area al mondo in cui c’è la minore disponibilità di energia per i consumi domestici e aziendali. Avere a disposizione gas ed energia darebbe sviluppo in un Continente in cui solo poche nazioni sono alquanto industrializzate, a partire dal Marocco che da un decennio si è dotato di fabbriche (Renault, ma non solo), di porti commerciali, autostrade e ipercentri commerciali.

La International Gas Union (Igu) in partnership con Hawilti Ltd ha rilasciato un importante documento sulla distribuzione di energia in Africa, progetto sul quale concordano la African Energy Commission (Au-Afrec) e l’Africa Finance Corporation. Si noti che lo sviluppo in Africa darebbe impulso alle economie europee e in particolare all’Italia. Politicamente, il marzo 2023 è segnato dal complicato viaggio del presidente francese in Gabon, cui sono seguite visite ufficiali in Congo-Brazzaville, Angola e nella Repubblica Democratica del Congo, dove la Francia viene contestata per la presenza di suoi militari nella missione OnuMonusco”.

Il quadro geopolitico vede poco presenti gli Stati Uniti, mentre cresce la presenza italiana e altri soggetti europei nel settore energetico. La Francia sembra voler uscire da questo scacchiere economico, dove ha marcato anche troppo il passo nell’agricoltura, energia e uranio. Macron ha ricopiato le dichiarazioni della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, su uno scambio alla pari tra Paesi africani ed europei, ma non è molto credibile, visto che il suo viaggio in Africa è partito dal Gabon, dove la Francia sostiene la rielezione del dittatore Ali Bongo. La presenza cinese in Africa si è accoppiata con quella russa, dopo essere entrata militarmente in Libia (lato Cirenaica), in Algeria, dove a inizio marzo è stato siglato un accordo antijihadista e in centro Africa. Mosca cerca soprattutto di controllare il settore degli idrocarburi a livello mondiale.

ALCUNI DATI

In cinquant’anni la popolazione è passata dai 285 milioni del 1960 a 1,2 miliardi del 2018. Si prevede che dal 2017 al 2050 l’Africa sarà l’unico Continente a raddoppiare la propria popolazione, che ha un’età media per l’Italia fantascientifica, essendo sotto i 18 anni. Nel centro Africa si arriva a una popolazione con età media pari a 15,1 anni. Tra le risorse naturali: idrocarburi, diamanti (70 per cento della produzione mondiale), il 50 per cento del totale di manganese, cromite e cobalto, terre rare. L’uranio finora sfruttato quasi in toto dalla Francia è un terzo del prodotto mondiale, così come i fosfati. A fronte di ciò, c’è una corruzione troppo alta: secondo Transparency International la Repubblica Democratica del Congo è al 170esimo posto su 180 per corruzione, la Libia è al 173esimo posto e il Sud Sudan al penultimo posto. La corruzione è causata dalla mancanza di organismi di controllo e dal duopolio tra le élite locali e gli operatori internazionali. Per creare una forte borghesia nera, con stampa e giustizia indipendenti, e una scolarizzazione decente, servirebbe una forte manifattura locale. Mancano progetti di ampia portata, basati sul libero mercato e su uno scambio equo. In tal caso, l’Africa diventerebbe un partner strategico vicino all’Occidente, soppiantando le tigri asiatiche guidate dalla Cina, e dal sostituto della vecchia Opec araba, quale è stata la Russia degli ultimi vent’anni, replicando la forza ricattatoria dei vecchi produttori di petrolio.

Di seguito note e aggiornamenti su alcune nazioni africane.

NIGERIA

Un Paese esemplare per capire un Continente. La Nigeria è indipendente dal 1960, ha 210 milioni di abitanti (erano 41 milioni nel 1960): la sola Lagos ha 25 milioni di abitanti. Eppure, alle recenti elezioni presidenziali hanno votato solo in 15 milioni. Le elezioni si sono svolte tra ritardi, code, e carenza di banconote. I funzionari del comitato elettorale hanno attribuito i problemi a questioni logistiche, ma molti analisti hanno sottolineato lo sconvolgimento creato dall’arrivo – il 10 febbraio scorso – del nuovo conio della valuta nigeriana, la Naira, con banconote pressoché introvabili, causando problemi agli elettori a corto di denaro contante. Ha vinto le elezioni Bola Tinubu, che ha già amministrato la città di Lagos, ha studiato negli Usa e ha una moglie protestante. La Nigeria è una Repubblica presidenziale di tipo federale comprendente 36 Stati. Dal punto di vista religioso, la popolazione si divide tra cristiani e musulmani, con una presenza minore di religioni e culti tribali. L’economia è in forte crescita, come dimostrano i dati del Fondo monetario internazionale. Nel 2012, il Pil di 453 miliardi di dollari ha superato quello del Sudafrica, fermo a 384 miliardi di dollari. Il settore agricolo è in calo – secondo il profilo classico di nazioni in via di crescita – anche se la Nigeria è diventata importatrice di cibo mentre era un esportatore. La manifattura è la terza in Africa e marca quasi tutta l’Africa occidentale, anche se è pari a meno del 7 per cento del Pil. Nonostante sia una esportatrice di petrolio, la Nigeria ha una quota bassa (il 2,7 per cento) della produzione mondiale. La crescita riguarda soprattutto il terziario (52 per cento). Crescono anche settori tipici di nazioni occidentali e moderne, come le banche, le telecomunicazioni e le produzioni cinetelevisive. La Nigeria è il 12esimo esportatore mondiale. Non solo: Citigroup ha incluso la Nigeria tra gli undici Paesi “Global Growth Generators” (generatori di crescita mondiale).

SUDAFRICA

Ecco una nazione che da leader continentale ha vissuto la decadenza – etica e amministrativa – della politica locale dopo la morte di Nelson Mandela. La spaccatura tra bianchi e maggioranza nera si è ricomposta in parte, ma con contraddizioni nella capacità di fare economia in maniera performante, e – per giunta – con la nascita di xenofobia da parte della popolazione nera. In questi mesi il Sudafrica ha avuto una crescita record dei prezzi del cibo, dell’energia e (quindi) dell’inflazione. Crescono anche i costi della benzina e gli interessi bancari. L’inflazione è scesa dal 7,2 per cento di dicembre 2022 al 6,9 di gennaio 2023, ma resta alta. Nel 2022 le cipolle sono aumentate del 48,7 per cento e il caffè del 26,4 per cento. Il leader della Confindustria sudafricana, Busisiwe Mavuso, avvisa i politici sul rischio che scoppi una rivolta in stile primavere arabe”. La disoccupazione ha toccato il 32,9 per cento. Non sono da sottovalutare le proteste violente contro gli immigrati dallo Zimbabwe e da altre nazioni vicine, e quelle contro i commercianti indiani. Nel 2008 la xenofobia causò 69 morti (Ips Un Bureau Report).

ZIMBABWE

Il post-colonialismo inglese, pur pessimo per le ricadute sulla popolazione, era molto performante dal punto di vista agricolo e minerario. Ma è stato sostituito da un colonialismo locale anche peggiore, di cui è stato protagonista Robert Mugabe. Dopo l’indipendenza del 1965, rimanendo comunque miniere e aziende agricole di inglesi, c’è stato un lungo periodo di lotta tra l’etnia shona (a nord), che si è legata alla Cina e quella dei bantu ndebele a sud. Poi è arrivato il presidente Mugabe, che –non riuscendo a creare e gestire un sistema produttivo alternativo – ha preferito trovare una soluzione espropriando tutte le proprietà degli ex coloni inglesi e cacciandoli via (seguendo in questo il modello di Gheddafi in Libia). La cacciata degli ex coloni ha dato il via a decenni di miseria con un’inflazione mostruosa, tanto che la moneta nazionale è stata cancellata e sostituita dal dollaro Usa e dal rand sudafricano. L’inflazione nel 2008 era arrivata al 355.000 per cento. Oggi al mercato nero la banconota da 750.000 dollari dello Zimbabwe vale meno di mezzo dollaro statunitense. Nel 2009 prima della sparizione della moneta locale (ufficializzata solo nel 2015), la Banca centrale di Harare ha introdotto una banconota da 100 trilioni di dollari. Gli ultimi anni della presidenza Mugabe sono stati sostenuti e appoggiati dalla Cina, così che il dittatore ha potuto contrastare le proteste popolari (disoccupazione è ufficialmente all’80 per cento) forte di un supporto esterno. Nel 2017 un colpo di Stato ha rimosso Mugabe, ma poco e niente è cambiato. Perciò una nazione con 15 milioni di abitanti ha visto milioni di persone fuggire in Botswana – dove il confine è stato presidiato con un muro elettrificato – e nel Sudafrica. Una fuga senza fine, perché nel Sudafrica è cresciuta la xenofobia (69 morti nel 2008).

GABON

Forti le proteste in Gabon contro la recente visita del presidente francese Emmanuel Macron. Quest’ultimo appoggerà la ricandidatura del presidente Ali Bongo (già eletto nel 2016 con molte contestazioni di corruzione e voti falsi). “I gabonesi devono subire una duplice oppressione: quella del clan di Ali Bongo, e quella della Francia… Se non riusciremo a sfuggire a queste due violenze, finiremo strangolati” dice Bertrand Bouanga, professore della università Omar Bongo. In Gabon, Macron ha partecipato al One Forest Summit di Libreville, evento per la preservazione delle foreste africane proposto da Macron e Bongo nel corso del Cop27 di Sharm el-Sheikh. “C’è una forma di ipocrisia quando si parla di ambiente come foglia di fico per sostenere una dittatura: noi crediamo che la Francia stia così aiutando la dittatura di Ali Bongo”, ha detto il giornalista e oppositore, Orca Mouillé.

UGANDA

La Francia, in ritirata dall’area nordoccidentale africana, si rivolge altrove, affidando alla Total la costruzione della East African Crude Oil Pipeline (Eacop) tra Uganda e Tanzania. Contestazioni degli ambientalisti e di tecnici come Dickens Kamugisha, dirigente di Afiego (African Institute for Energy Governance). Le accuse contro Total consistono nel confronto tra i 5 miliardi di appalto per la costruzione del gasdotto e il pochissimo denaro destinato all’ambiente e ai residenti.

AFRICA CENTRALE

La ritirata della Francia dall’Africa centrale è stata catastrofica come quella americana dall’Afghanistan, lasciando campo libero a Russia e Cina. A Parigi, Macron ha ribadito che il Governo francese ridurrà significativamente il numero di militari presenti in tutto il Continente africano. L’annuncio è avvenuto nel corso di un incontro tra Francia e quattro nazioni centroafricane. Un messaggio che è stato accolto positivamente. Africanews.com riporta una dichiarazione di un responsabile sanitario locale, Eugene Maye, secondo il quale la riduzione delle truppe francesi è “buona cosa: Noi siamo indipendenti, e non abbiamo bisogno di eserciti stranieri”.

ALGERIA

La Russia offre supporto militare ad Algeri contro gli islamisti. Mentre Eni completava l’acquisizione di due importanti concessioni algerine di gas dalla Bp, Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di Sicurezza russo, si è incontrato col ministro della Difesa di Algeri e con il comandante in capo dell’esercito algerino, Said Chanegriha. Obiettivo degli incontri “cooperazione militare tra le due nazioni, crescita dei legami”. Mosca è il maggior fornitore di armi per l’Algeria. I recenti accordi tra Italia e Algeria hanno segnato un punto di svolta importante per la finora inesistente geopolitica dei nostri governi, dagli anni Novanta al 2022. Algeria e Italia potranno essere un asse alternativo alla Russia per gli idrocarburi e per l’idrogeno.

ISLAMISTI TRA SAHEL E NIGERIA

Il Sahel, esteso dal Mar Rosso all’Oceano Atlantico e confinante con il deserto del Sahara a nord e la savana sudanese a sud, racchiude (da ovest ad est) la Mauritania, il Senegal, la Gambia, il Mali, il Burkina Faso, l’Algeria, il Niger, la Nigeria, il Camerun, il Ciad, il Sudan e l’Eritrea. Nel nord del Mali da 10 anni si combatte una guerra di cui poco si parla. Il conflitto causa morti, sfollati che poi emigrano in Europa, e disastra tutto il Sahel centro-occidentale, perché lo jihadismo, sconfitto nel Medio Oriente e altrove, in Africa resta forte. Il 21 febbraio scorso tre soldati senegalesi della missione Onu Unmisma sono morti nel Mali a causa dello scoppio di una mina artigianale piazzata da ribelli islamici. Tra i gruppi jihadisti che si oppongono all’esercito maliano e dall’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale) appoggiati oggi da militari russi e ieri da francesi, vi sono, oltre alla storica Aqmi (Al-Qaida nel Maghreb) e al Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc), i ribelli tuareg capeggiati dal Mlna (Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad) e i fondamentalisti islamici (molti provenienti dalla Libia). Tra questi il Mujao (Movimento per l’Unicità e la Jihad nell’Africa Occidentale), e Ansar Dine (“Ausiliari della religione islamica”), oltre all’Isgs. Forte anche la presenza jihadista in Algeria dopo le repressioni di anni fa (la “Sporca guerra”). L’Isgs (Stato Islamico nel Grande Sahara) è una branca dello Stato Islamico 3, che persegue la nascita di un califfato del Sahel. Da ricordare la presenza di un gruppo molto aggressivo –che ha conquistato parte del nord della Nigeria – come Boko Haram. In Somalia resta forte il gruppo Al-Shabaab, autore di attentati micidiali, contro il quale il rieletto presidente Mohamud Hassan Sheikh giura una vittoria ancora difficile.

TUNISIA

La perdurante crisi economica tunisina è aggravata dalla presenza ormai pari a quella libica di immigrati dall’Africa sudoccidentale e dal Sahel. In queste settimane c’è stata una repressione molto forte, che ha costretto alla fuga molti immigrati sub-sahariani. Il presidente Kaïs Saïed ha ordinato “misure urgenti” contro l’immigrazione clandestina, che è opera di un “piano criminale ordito per cambiare la demografia della Tunisia”. Il discorso del presidente Saïed è considerato un punto di svolta (nel bene e nel male) dai commentatori tunisini. La scorsa settimana centinaia di contestatori sono sfilati a Tunisi, dicendo “stop con il fascismo: la Tunisia è una nazione africana”.

LIBIA

A inizio marzo il rappresentante Onu in Libia ha ribadito la necessità di un voto chiarificatore in una nazione divisa e bloccata da ingerenze straniere (Russia, Turchia), dove fino a qualche mese fa Eni aveva severi limiti, nonostante i vantaggi che derivano dalla tecnologia e dal pagamento degli idrocarburi acquistati dall’Italia. Mentre la Russia ha spostato parte dei suoi uomini della Wagner da Bengasi all’Ucraina, è in calo l’ingerenza turca e anche quella cinese. Riuscirà il voto a far rientrare la spaccatura tra Cirenaica, Tripolitana e il Fezzan dove è stata forte la presenza francese già prima della Seconda guerra mondiale?

L’ESEMPLARE VICENDA DEL PRINCIPE SULEIMAN CARAMANLI

La dinastia Caramanli nasce all’inizio del XVIII secolo, quando Ahmed Karamanli (o Caramanli), ufficiale dei giannizzeri ottomani, rovesciò il governatore ottomano, riuscendo poi a farsi riconoscere come nuovo rappresentante dell’impero turco. La crisi della dinastia nasce alla fine delle guerre napoleoniche, quando i libici sopravvissero con la guerra di corsa e con il rilancio del traffico di schiavi sub-sahariani verso l’Europa e gli Stati Uniti (singolare questa dimenticanza nelle cronache giornalistiche attuali!). Con la diffusione delle idee liberali, però, si diffondevano idee contrarie allo schiavismo, pertanto il trafficò finì rapidamente. La crisi economica conseguente causò la fine dei Caramanli. La Libia agli inizi del 1943 finì sotto il controllo inglese per la Cirenaica e Tripolitania, e sotto quello francese per il Fezzan. Alla fine della guerra, per gli italiani di Libia ci fu una breve speranza rappresentata del principe Suleiman Caramanli, che viveva a Roma ed era ufficiale del Regio esercito, quindi sarebbe stato dalla parte degli italiani (i quali pensavano a manifestazioni in suo favore). Il principe si recò segretamente in Libia. Tuttavia, nel corso di una sosta a Tunisi, subì una “vaccinazione” da parte di medici inglesi. Morì dopo pochi giorni. Conseguenza di ciò fu la vittoria della fazione dei senussi della Cirenaica, e il re Idriss, legato al Regno Unito inglese, diventò nel 1951 il sovrano del Regno Unito della Libia (vedere Ettore Rossi, Oriente Moderno, numero 10/12, ottobre-dicembre 1951). Si noti che la Francia e la Russia avrebbero preferito una spartizione con la Cirenaica sotto il controllo inglese, il Fezzan sotto quello francese, mentre la Tripolitania – dove nel 1950 vivevano ancora 45mila italiani– sarebbe rimasta sotto l’amministrazione fiduciaria italiana (o russa). La scelta dell’indipendenza fu dovuta alle pressioni di Onu e Stati Uniti, e anche per “compensare” i popoli arabi rispetto alla proclamazione dello Stato di Israele.

LIBIA E ITALIA OGGI

L’importante novità è quella del Governo che, dopo anni di incapacità e nullismo geopolitico, ha capito che la geopolitica significa ricchezza e pace tra le nazioni. Nel corso della sua visita a Tripoli, Giorgia Meloni ha riallacciato rapporti con la Cirenaica e ha siglato uno storico accordo per Eni da 8 miliardi di dollari. Le politiche “predatorie” di Francia e Cina in Africa sono state superate dalla dottrina della partnership economica. La premier Meloni sintetizza così: “Aiuteremo i Paesi africani a crescere”. “Strutture A&E” è il primo progetto internazionale in Libia dopo la guerra che portò alla fine di Muammar Gheddafi, e comprende due giacimenti di gas offshore (“A” e “B”). Il gas servirà anche all’utilizzo da parte libica e prevede inoltre un impianto di cattura e stoccaggio dell'anidride carbonica a Mellitah. Si converge così su soluzioni contro la “tratta di immigranti”, ma in questo caso la questione deve riguardare Unione europea e Unione africana.

AUTOSTRADA LITORANEA DEL NORD AFRICA

In Libia si è forse sbloccata la realizzazione dell’autostrada costiera di 2mila chilometri (sul tracciato della Via Balbia che dal 1937 univa Tunisia ed Egitto). Unirà Tripolitania e Cirenaica ed è un progetto visto con favore anche dall’Egitto. Il primo lotto dell’opera fu vinto nel 2013 dal consorzio Salini-Impregilo (oggi Webuid). Il primo lotto era previsto in Cirenaica. Oggi il presidente Fayez al- Serraj preferirebbe che i lavori comincino contestualmente in Cirenaica e Tripolitania. L’opera si collegherebbe con la superstrada trans-africana 1 (in inglese Trans-African Highway 1, Tah1), chiamata anche Cairo-Dakar Highway. I soggetti coinvolti sono soprattutto la Commissione economica per l’Africa, la Banca africana di sviluppo e l’Unione africana. In totale, nel tragitto ci sono già dieci autostrade nazionali, collegate tra loro da strade nazionali. La Tah1 ha una lunghezza totale di 8.636 chilometri e sarebbe in grado di migliorare le economie locali.

Aggiornato il 13 marzo 2023 alle ore 09:42