Digitalizzazione nei piccoli Comuni: prospettive per un futuro smart

Stiamo vivendo un periodo complesso in cui è stata messa in discussione la nostra libertà di vita a causa della pandemia che ci ha costretto ad uscire dagli schemi, a cercare nuove soluzioni, nuovi equilibri di vita nell’attesa del ritorno alla normalità. Ma quale sarà la nostra normalità post Covid? Quasi certamente non sarà possibile un ritorno allo “status quo”, molto è cambiato durante questo periodo, basti pensare all’accelerazione dell’home working che, nato per necessità, diventerà una regola per tanti a fine pandemia. È l’istinto di sopravvivenza che ci sta guidando in questa difficile fase ma, considerato che sopravvivere rende tutti infelici, il vero obiettivo sarà di ritornare a “vivere” usando la forza della ragione.

Ritornare a vivere, dunque, con un rinnovato entusiasmo nel progettare il futuro e, soprattutto, cercando di non ripetere gli errori del passato. Riguardo al futuro delle aree metropolitane si è tanto scritto e molti sono gli investimenti pianificati e in corso di pianificazione; si parla molto meno invece del futuro dei piccoli Comuni, quelli con meno di 5mila abitanti. Sono circa 5.500 i piccoli Comuni e rappresentano il 69,5 per cento dei Comuni italiani dove vivono oltre 10 milioni di persone. Circa il 17 per cento della popolazione nazionale vive in queste aree, ma potrebbero essere molti di più se si riuscisse ad invertire la tendenza degli ultimi anni e a riportare in questi territori parte dei giovani, che sono stati costretti ad abbandonare la loro terra non avendo prospettive di lavoro.

Nei piccoli Comuni si trovano oltre 2mila luoghi della cultura di proprietà dello Stato: apportati al totale di circa 6.600 luoghi del territorio nazionale, rappresentano il 30 per cento del totale. Da un rapporto della Coldiretti del 2018 emerge che circa 93 per cento delle produzioni tipiche nazionali nasce nei piccoli Comuni. Sono state mappate circa 297 tipicità sul territorio nazionale di cui quasi 270 sono prodotte nei piccoli Comuni. Ma nei piccoli Comuni non ci sono solo storie di eccellenza, ci sono purtroppo anche tante occasioni mancate di crescita dell’offerta turistica, di miglioramento delle comunicazioni, di nuove prospettive di lavoro per fermare l’emorragia che sta portando allo spopolamento di intere aree e alla migrazione di tanti giovani verso le aree metropolitane e all’estero. Si può crescere puntando sull’innovazione e sulla digitalizzazione di questi territori. Il piano di ripartenza del Paese può considerarsi completo solo se nel suo programma troverà uno spazio adeguato anche per i piccoli Comuni.

Servono investimenti a medio-lungo termine per un programma che punti sulle tecnologie e che abbia tra le priorità: le infrastrutture digitali (reti e digitalizzazione) e tra queste, la connettività veloce perché tutti hanno diritto di usufruirne, indipendentemente dall’area di residenza, il miglioramento dell’offerta turistica, il miglioramento della rete dei trasporti. Lo sviluppo dei Fablab, dei laboratori incentrati sull’autoproduzione, reti e digitalizzazione.

Non c’è progresso senza le infrastrutture e in questo momento storico dare a tutti la possibilità di avere una connettività veloce è una priorità, che risponde ad esigenze di sviluppo, ma non solo: è anche necessario garantire l’equità sociale per l’accesso ai servizi digitali in ogni area del territorio nazionale. Occorre superare il “digital divide” o “divario digitale” che esiste tra coloro che hanno un accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione (internet, computer) e coloro che ne sono esclusi. Il “digital divide” è dovuto a tanti fattori: dalle condizioni economiche, al livello di istruzione, alle differenze di età, di sesso e di etnie. Ma c’è anche un “digital divide” geografico dove alcune regioni o aree metropolitane hanno accesso alle tecnologie dell’informazione e altre aree ancora no. Tra le aree maggiormente penalizzate ci sono proprio i piccoli Comuni, spesso ubicati in località lontane dalle aree metropolitane e in luoghi non facilmente accessibili. Risale al 2015 il documento con cui viene descritta la strategia italiana per la banda ultra-larga con la suddivisione del territorio nazionale in sotto-aree: bianche, grigie e nere. La distinzione in aree ha rilevanza ai fini della valutazione e della successiva assegnazione degli aiuti di Stato. Le aree bianche sono quelle prive di reti ultrabroadband, le aree grigie sono le aree in cui è presente o verrà sviluppato una rete da almeno un operatore privato, le aree nere sono quelle in cui verranno sviluppate almeno due reti ultra-broadband di operatori diversi.

Ma cosa si intende per banda ultra-larga? In realtà a parte la definizione dettata dall’agenda digitale europea che parla di velocità in download di almeno 30 mps fino ad arrivare a 100 mps, la definizione più ampia e forse più corretta sarebbe quella di assicurare una velocità che consenta di avere una connessione stabile, fluida ed efficace durante la navigazione tale da assicurare: la consultazione delle pagine web, l’accesso a risorse cloud e a server aziendali (indispensabile per effettuare lo smart working da casa), l’utilizzo di contenuti in streaming.

A che punto siamo con la copertura del territorio, soprattutto nelle aree bianche? Le aree bianche, quelle che assicurano meno ritorni economici agli operatori, sono seguite dalla società Infratel Italia, il cui capitale è posseduto dal ministero dello Sviluppo economico. Le aree bianche sono oggetto di interventi volti ad accelerare i tempi per assicurare la disponibilità della banda larga che si basa sulla tecnologia ad onde radio. Tra gli operatori maggiormente attivi nel programma di azzeramento del “digital divide” geografico c’è Eolo che già da tempo ha scommesso sulla tecnologia Fwa (Fixed wireless access). Il progetto punta ad accelerare ulteriormente lo sviluppo della rete Fwa su frequenze a 28 Ghz, in grado di assicurare connessioni fino a 100 megabit ed in futuro espandibili fino a 1 gigabit. La rete Fwa di Eolo, come dichiara l’operatore dal suo sito, “oggi copre il 78 per cento delle unità abitative che ricadono nelle aree bianche italiane e fornisce connettività ultraveloce a 1,2 milioni di persone che risiedono negli oltre 6mila Comuni coperti. Inoltre, l’azienda connette circa 70mila unità tra imprese ed enti della Pubblica amministrazione”.

Open Fiber, aggiudicataria di 3 bandi per il cablaggio in fibra è presente nelle aree bianche ed è attiva nel progetto per portare la fibra ottica in 3.043 Comuni situati in varie regioni (Lombardia, Veneto, Toscana, Abruzzo, Molise, Emilia-Romagna). È anche attiva per assicurare la copertura di altri 3.710 Comuni di 10 regioni dove circa 4,7 milioni di unità immobiliari saranno raggiunte dalla fibra (almeno 3,5 milioni) e da banda fino a 100 Mbps (la restante parte di unità immobiliari). Con l’ultimo dei tre bandi, sempre Open Fiber interverrà sul potenziamento della connettività su altri 959 Comuni. In totale saranno circa 7.770 i Comuni che beneficeranno degli interventi di cui sopra, e tra questi molti piccoli Comuni. La situazione è migliore nelle aree grigie e nere, dove gli operatori hanno avuto nel tempo maggiori interessi economici in termini di Roi (Ritorno degli investimenti) e, quindi, sono da più tempo presenti. Il “digital divide” è all’attenzione di tutti gli operatori del settore come Tim, Fastweb, Wind e Vodafone che si stanno orientando verso questa tecnologia Fwa per ridurre il gap esistente tra le zone ben cablate e le restanti zone. Il wireless Fwa è, quindi, una valida alternativa alla fibra soprattutto nei piccoli Comuni dove è più complicato portare quest’ultima e si basa sulla presenza capillare delle antenne della vecchia tv analogica. L’uso delle frequenze in concessione sta diventando ora utile per la trasmissione dei dati del settore delle telecomunicazioni.

Non è possibile immaginare uno sviluppo delle aree dei piccoli Comuni senza programmare e vincere la sfida della digitalizzazione, ma non si può vincere tale sfida senza il completamento del potenziamento delle reti nelle aree bianche, nei piccoli Comuni, nell’intero territorio nazionale. Reti e digitalizzazione sono indispensabili premesse, dunque, per portare sviluppo e benessere economico in tali aree, al ripopolamento dei piccoli Comuni e ad un nuovo equilibrio tra aree metropolitane e il resto del territorio. Le sinergie tra Stato e imprese possono portare al raggiungimento di tali obiettivi, ma occorre un programma vincolante e un forte commitment.

Fablab, le reti e la digitalizzazione sono indispensabili premesse per portare sviluppo e benessere economico anche nei piccoli Comuni, ma da sole non bastano se non c’è un piano di crescita economica che si affianca a quello di innalzamento tecnologico delle aree più distanti e/o più depresse. Occorre potenziare l’offerta turistica perché: nei piccoli Comuni si trovano oltre 2mila luoghi della cultura di proprietà dello Stato pari al 30 per cento del totale del restante territorio nazionale. Il 93 per cento delle produzioni tipiche nazionali nasce nei piccoli Comuni. La vera ricchezza del nostro Paese è la diversità agroalimentare e l’impareggiabile bellezza dei nostri paesaggi. Nuove opportunità di lavoro possono essere realizzate però anche con i Fablab, i laboratori incentrati sull’autoproduzione.

Come riportato dall’enciclopedia on line Wikipedia, il termine “Fablab”, deriva dall’inglese “Fabrication laboratory” e si riferisce alla sperimentazione della creazione di piccole officine che offrono servizi personalizzati di fabbricazione digitale. Ogni Comune o consorzio di Comuni potrebbe destinare aree/locali liberi per creare un Fablab dove, grazie a strumenti computerizzati da mettere a disposizione della cittadinanza, sarebbe possibile: effettuare formazione per l’utilizzo di tali strumenti finalizzata all’apprendimento, realizzare una ampia gamma di oggetti, fornire agli utenti la possibilità di realizzare in proprio dispositivi tecnologici la cui produzione sarebbe accessibile solo agli operatori su larga scala.

Come realizzare i Fablab? Mettendo a disposizione di nuove startup e di artigiani locali e attrezzature per avviare la propria attività a costo zero per almeno 2-3 anni chiedendo loro, come contropartita, l’obbligo di assicurare una piccola parte del loro tempo a formare nuovi artigiani, mettendo a disposizione parte dei laboratori e dei macchinari per consentire ai cittadini una autoproduzione di prodotti di massa utilizzando strumenti che non potrebbero avere altrimenti a disposizione per via dei costi. Quale obiettivo raggiungere? Ridare impulso all’artigianato e alle piccole imprese mettendo a disposizione locali e macchinari i cui costi non sarebbero sostenibili per chi vuole avviare un’attività. Fare formazione per dare alle aziende locali e a nuove startup personale con competenze specifiche. Avviare nuove piccole imprese nel territorio creando posti di lavoro e le premesse per una inversione di tendenza della mobilità del lavoro dalle aree metropolitane verso i piccoli centri, i piccoli Comuni.

Home working, un nuovo pendolarismo non più giornaliero

La pandemia ci ha insegnato che si possono cambiare le regole, le abitudini e il modo di vivere in pochissimo tempo, se non si hanno alternative. È stato un cambiamento inatteso e brusco che ha in parte sconvolto e in parte anche piacevolmente sorpreso: molte aziende e tanti lavoratori hanno scoperto che si può lavorare da casa. Abbiamo sperimentato l’home working, che non è ancora smart working perché alcune regole non sono state ancora definite e scritte. Ci si potrebbe soffermare a lungo sui dettagli del futuro dello smart working, ma saranno gli esperti del lavoro, i datori di lavoro e i sindacati a definire nel dettaglio le nuove regole. Una prima importante riflessione però può riguardare il futuro della mobilità urbana ed extra urbana dei lavoratori. L’estensione dello smart working ha indubbi vantaggi per i lavoratori e per le aziende in termini rispettivamente di tempi e di costi: per i primi lavorare da casa porta ad un abbattimento dei tempi di spostamento da/verso la sede di lavoro, per i secondi forti riduzioni dei costi di gestione degli uffici. Lo smart working può portare ad una nuova mobilità dai Comuni piccoli verso le aree metropolitane. Lo smart worker potrà decidere di vivere anche nei piccoli Comuni un po’ più distanti dalla sede aziendale, non deve necessariamente vivere nelle aree metropolitane. Ma il lavoratore che farà smart working solo per alcuni giorni della settimana dovrà prendere i mezzi per recarsi al lavoro solo alcuni giorni del mese: potrà vivere nei piccoli Comuni ma occorrerà necessariamente programmare e migliorare i loro spostamenti con nuovi servizi di trasporto da/verso i piccoli Comuni.

Il futuro dopo il Covid? Il futuro post-Covid sarà per tutti noi diverso da prima, possiamo però tutti impegnarci per renderlo migliore.

(*) Socio Aidr e responsabile Osservatorio tecnologie digitali nel settore dei trasporti e della logistica

Aggiornato il 27 ottobre 2020 alle ore 10:35