Semiconduttori, il Chips Act della Ue in cerca di autonomia strategica

Se vi siete recate in una concessionaria autovetture probabilmente avrete sentito parlare della crisi semiconduttori. Di cosa si tratta? Che cosa sono i semiconduttori? Si tratta di materiali speciali utilizzati per realizzare le componenti che stanno alla base dei chip, elemento fondante non solamente delle auto moderne, ma anche di tutti gli oggetti tecnologici che utilizziamo ogni giorno, dagli smartphone, ai televisori, ai pc. Tutto nasce dalla pandemia Covid-19, che ha messo in crisi la produzione industriale dei chip a livello mondiale. Con la carenza di produzione, i grandi colossi del tech si sono accaparrati le forniture, lasciando sprovviste molte aziende che ne avevano bisogno. I marchi dell’automotive sono stati certamente tra i più colpiti, anche a causa della scarsa richiesta di prodotto nei primi mesi di lockdown.

La crisi è partita all’inizio del 2020 e i ritardi riflettono gli ostacoli incontrati da una catena produttiva che si è inceppata in più punti: la scarsità nell’approvvigionamento di materie prime si è combinata con i ritardi di lavorazione dovuti al lockdown dei siti produttivi (localizzati soprattutto nel sud-est asiatico e in particolare a Taiwan, paese che produce il 15 per cento dei chip mondiali, e che ha subito numerosi stop per arginare la pandemia), oltre a rallentamenti nei trasporti via mare, diventati sempre più costosi per la scarsità di container. Le case automobilistiche, dopo aver rallentato gli approvvigionamenti di semiconduttori nei primi lockdown europei del 2020, non hanno potuto sopperire attraverso il magazzino alla mancanza di rifornimenti e le concessionarie hanno ben presto esaurito i veicoli in pronta consegna a causa di un mercato che nella seconda parte del 2020 ha visto un’impennata di ordini, portando a tempi di consegna fuori controllo.

A rendere la crisi dei semiconduttori e la carenza di chip un problema più grave hanno pensato due incidenti molto gravi, avvenuti uno dopo l’altro nel primo trimestre del 2021. Il primo è stato l’incendio all’impianto della Renesas Electronics, una grande azienda giapponese che produce componenti elettroniche, il secondo è stato l’incidente del canale di Suez, dove la portacontainer Ever Given si è arenata per giorni, bloccando le vie di comunicazione e di scambio tra Asia ed Europa. Questi due eventi hanno reso la situazione pressoché insostenibile in molti settori. Le case automobilistiche hanno cercato di correre ai ripari: tra le strategie messe in atto ci sono il ridimensionamento della produzione, l’eliminazione di alcuni optional dai listini per diminuire la richiesta di materiale, e la produzione interna dei chip. Quest’ultima sarebbe ovviamente la soluzione migliore, ma anche la meno attuabile poiché ci vuole tempo per avere un prodotto di qualità che rispetti gli standard. Tesla, ad esempio, ha avuto da sempre una parte della produzione interna di chip, riuscendo a non subire particolari contraccolpi da questa crisi dei semiconduttori.

La pandemia da Covid-19 e lo scontro, non solo commerciale, tra Cina e Stati Uniti hanno rivelato la debolezza industriale dell’Unione europea, le cui filiere strategiche sono state scarsamente presidiate e valorizzate negli ultimi decenni. Al virus può essere riconosciuto un merito: di aver accelerato un processo di maturazione e di consapevolezza riguardo l’importanza di una vera strategia industriale, basata sull’individuazione di settori imprescindibili per lo sviluppo e la crescita del vecchio continente. Per questo, la Ue si è posta un obiettivo molto ambizioso: produrre il 20 per cento dei semiconduttori mondiali entro il 2030. Ma la strada non è così in discesa. Tra le varie soluzioni prese in considerazione, vi sarebbe la costituzione di fondi e di incentivi per la costruzione di fabbriche locali che possano produrre semiconduttori e riportare l’Europa in una condizione di sovranità digitale e di autonomia produttiva rispetto ai colossi asiatici del settore, con enorme beneficio anche per la competitività del mercato. L’Ue intende coprire un quinto della produzione globale di semiconduttori alla fine di questo decennio, come parte degli sforzi per ridurre la sua dipendenza dai fornitori non europei.

Il piano dell’Unione europea, chiamato “2030 Digital Compass”, tiene conto dell’importanza dei semiconduttori, utilizzati nelle auto connesse, negli smartphone, nei dispositivi collegati a Internet, nei computer ad alte prestazioni e nell’intelligenza artificiale, e del fatto che la recente carenza globale di semiconduttori ha portato all’arresto di diverse fabbriche di automobili in tutto il mondo. Il progetto relativo al 2030 Digital Compass non prevede infatti nessuno stanziamento extra di risorse; il Piano si dovrà quindi sostenere sui fondi già stanziati per il Recovery fund, che, sebbene destini una somma non indifferente al digitale, potrà difficilmente essere una leva così forte da raddoppiare l’attuale quota di mercato europea.

Il punto fondamentale è un altro: l’approccio che prevede il consolidamento degli attuali produttori europei di chip è complesso da realizzare. È irrealistico pensare che attori come GlobalFoundries o Stmicro raggiungano i livelli di investimenti in R&D di leader industriali come Tsmc o Samsung. Le spese in conto capitale (capex) di queste due realtà sono stimate in crescita, intorno ai 55,5 miliardi di dollari nel 2021, cifra che non farà altro che aumentare il già presente gap tecnologico con i competitor. In secondo luogo, le fabbriche avanzate di chip richiedono un aggiornamento continuo per mantenere elevata la qualità produttiva, dunque si renderebbero necessari investimenti costanti e regolari nel tempo. Tali investimenti necessitano di un’adeguata domanda per essere sostenibili, ma questa domanda è ancora assente in Europa: come sostenuto da Tom’s Hardware, la gran parte del fabbisogno europeo attuale di semiconduttori proviene dal settore automotive, il quale non richiede né chip particolarmente sofisticati né volumi ingenti di processori (solo il 3 per cento delle revenue di Tsmc deriva dall’automotive).

Nel breve periodo una strategia più efficace potrebbe essere quella di attrarre capitali ed investimenti nel continente da parte di imprese come Samsung e Tsmc, che detengono la maggior parte del mercato mondiale dei semiconduttori. In proposito, secondo Bloomberg l’Unione europea starebbe valutando l’ipotesi di costruire una mega-fabbrica europea con il contributo della sudcoreana Samsung e la taiwanese Tsmc, ipotesi che però non è mai stata confermata. Ciò potrebbe non risolvere né il problema dell’autonomia strategica, né quello della carenza di semiconduttori per l’industria automotive, rendendo l’Europa un mero “punto di appoggio” di processi che coinvolgono attori asiatici e compagnie high-tech statunitensi, per esempio. Come sottolinea Reinhard Ploss, ad di Infineon, la più grande produttrice europea di chips, la liquidità europea non assicurerà lo sviluppo di una catena di approvvigionamento locale di semiconduttori, se i maggiori consumatori di tali tecnologie rimarranno i giganti tech statunitensi. Sia per ripararsi dagli shock di offerta del settore, sia per far crescere le realtà industriali locali, per l’Europa appare fondamentale puntare sulla domanda interna di chip sofisticati, rilanciando settori come l’industria del computer o l’elettronica di consumo.

La principale insidia è però di natura concettuale, e riguarda l’eccessivo focus prestato in Europa al manufacturing dei chip a scapito del design degli stessi. Sviluppare una capacità produttiva endogena ad alto grado di sofisticazione richiederebbe numerosi anni ed investimenti molto elevati. Al contrario, puntare sull’ecosistema europeo di progettazione (design) dei semiconduttori potrebbe rivelarsi una strategia cost-effective per scalare la catena del valore del mercato.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 03 dicembre 2021 alle ore 15:49