Appello per un riscatto morale

domenica 7 ottobre 2012


Al punto in cui siamo arrivati tra scandali, ruberie e deficit democratico, con relativo e obbligato commissariamento della politica, forse, qualche anno fa non lo avremmo immaginato. Tra gli anni Settanta e Ottanta (e oltre), quando a pieno regime funzionava la sterminata miriade delle società pubbliche scientificamente create e controllate dal Tesoro, dalle Partecipazioni statali, dalla Cassa del mezzogiorno, dall’Iri-Italstat e tante altre parapubbliche emanazioni, non mi sembra che le cose andassero tanto meglio quanto a correttezza e onestà di singoli uomini politici che queste istituzioni governavano.

È un fatto che imprese grandi e meno grandi, assistite a pagamento dalla cinghia di trasmissione del sindacato (meglio nota al tempo come Trimurti), ieri come oggi, facevano anticamera negli uffici dei vari capigabinetto di sottosegretari e ministri, sindaci e assessori per essere invitati a gare pubbliche da esperire rigorosamente a trattativa privata, con modalità a dir poco arbitrarie se non addirittura quando apertamente illegali. Proponendo nell’offerta, per vincere, il più conveniente “rialzo” a base d’asta da spartire dopo con coloro che graziosamente avevano ammaestrato la gara.

In quegli anni la perfetta meccanica messa a punto con straordinaria efficienza e puntuale scientificità tra politica affaristica, sindacato connivente, rete imprenditoriale e burocrazia asservita, era così ben congegnata che gli enti pubblici con capacità di spesa sembravano essere stati creati appositamente per facilitare non la produttività e il legittimo utile delle imprese, ma per garantire la massima libertà al consolidato sistema di corruzione e di auto alimentazione di (quasi) tutti partiti del cosiddetto arco costituzionale. Non per caso quelli furono gli anni in cui istituzionalmente le figure del controllato e del controllore vennero sempre più fatte coincidere in tutti i settori della pubblica amministrazione. Con il tacito assenso di alcuni Ordini professionali. Erano anni, quelli, in cui chi voleva entrare nel sistema pubblico degli appalti, degli incarichi e delle consulenze professionali non aveva scelta.

O trovava lo “sponsor” politico, o si riferiva ad un sindacato, o a qualche loggia più o meno coperta, o si raccomandava al monsignore di turno che avrebbe fatto quanto in suo potere, talvolta anche a titolo gratuito. Quella era l’epoca in cui anche gli scandali cosiddetti di costume (sessuale) avvenivano con la stessa regolare puntualità con la quale si scoprivano, per poi essere subito ricoperti per rispetto della comune decenza e delle “istituzioni”; come peraltro i vizietti di droga, in seguito ammessi con pubbliche dichiarazioni anche in parlamento, da insospettabili e compunti personaggi politici.

Anni in cui era vano pensare di vincere qualche concorso o appalto pubblico senza una spintarella, una raccomandazione, una prestazione hard, senza una mazzetta. Nella morale comune dell’epoca quello che comunque stupiva era la pubblica condanna e la privata assoluzione anche da parte di chi non era “addetto ai lavori”. Le tangenti date ai singoli uomini politici (impropriamente chiamato finanziamento ai partiti) era allora così ben strutturato che spesso venivano sollecitate creazioni di società ad hoc per destinare quote di proprietà a coloro che poi in un altro momento avrebbero erogato fondi pubblici per finanziare quelle stesse società di cui erano soci.

Tutto ciò era noto a tutti. Chi fosse stato solo per un attimo vicino a questo mondo avrebbe potuto sapere, conoscere e capire. Anche la magistratura talvolta vedeva, guardando spesso da un lato e poco dall’altro. Borse piene di denari viaggiavano alla velocità della luce in un tripudio di corruzione diffusa, di cene, champagne e regali. Tanti regali. Volevi la licenza edilizia per costruire una palazzina o per realizzare un intero quartiere? Non c’era problema. Si conosceva la tariffa per metro cubo destinata all’assessore o al suo portaborse o, in percentuale, all’impiegato delle tasse che archiviava la pratica di accertamento e tutto filava come l’olio.

Questo costume a tutti andava bene, tanto da essere stato codificato con l’orribile espressione: “dazione ambientale” da un noto magistrato che poi ha fatto una fulminea carriera politica, forse per migliorare il sistema. In fondo anche questa era, come si diceva al tempo tra la gente comune, tra concussi e concussori, una economia parallela ancorchè in nero. Era comunque una economia che, sommata a quella della mafia, della ‘ndrangheta, della camorra e della sacra corona unita faceva girare gli affari. Si diceva. Quando ci fu un timido tentativo di moralizzare il sistema, ricordo che un sindacalista esperto in queste pratiche mi disse cinicamente che, per la nota legge di mercato, a fronte di un aumento del rischio sarebbero aumentate le “tariffe”.

La differenza oggi qual’è? L’architettura di base in sostanza è rimasta la stessa, c’è solo l’aggiunta di una maggiore, insopportabile arroganza da parte di chi crede di avere acquisito, grazie al voto dei cittadini, il diritto a rubare e concutere. Ma l’Italia del Duemila non è più la stessa di quegli anni. In quel tempo esisteva in più la leva della politica monetaria che consentiva allo stato italiano quando era necessario di svalutare la lira con cifre a due decimali. Oggi qualcuno, incomprensibilmente, lamenta che questo non è più possibile. E la nazione schiacciata dall’euro e dalla politica degli irresponsabili si trova a un passo dal fallimento. Ancor di più perché è venuta meno la sua più grande risorsa creatasi dopo la seconda guerra mondiale.

Quella che consentiva all’Italia, prima del fatidico 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, di vivere di una rendita di posizione geopolitica di non marginale importanza. Oggi la sua collocazione geografica non è più considerata strategica come lo era al tempo dell’Unione Sovietica. L’italietta degli Andreotti, dei Saragat, dei Rumor e dei tanti altri che in quegli anni ci hanno governato quando c’era il pericolo comunista, non aveva l’imperativo dell’equilibrio di bilancio, per di più imposto dalla Bce. Prima del fatidico ’89 era sufficiente bussare alle casse dell’America e il problema era risolto.

L’Italia, allora, aveva la forza della sua debolezza. Eravamo una penisoletta in mezzo al Mediterraneo, ma, a differenza di oggi, confinavamo con la Yugoslavia, con i carri armati sempre con i motori accesi. Tenevamo anche noi le basi militari sul nostro territorio e per questo dovevamo essere adeguatamente ricompensati e comunque protetti. Anche economicamente. Nella strategia politica internazionale l’importante era far valere il nostro ruolo di stato-confine: limes dell’Occidente, del mondo libero e della democrazia. E, un po’ svalutando la lira, un po’ con qualche aiuto americano (e anche sovietico) alle nostre aziende, nonostante la corruzione e il famelico quanto insaziabile appetito dei politici e dello stato sciupone, riuscivano a sopravvivere. Senza chiedere troppi sacrifici al popolo bue imponendogli, come dopo l’Ottantanove è avvenuto, manovre e manovrine per salvare l’Italia dalla bancarotta.

Il Paese, però, nonostante gli aiuti che gli provenivano dall’estero, senza rendersene conto s’impoveriva lo stesso nelle sue strutture produttive, nella sua tenuta imprenditoriale che perdeva giorno dopo giorno la capacità del confronto, della sfida e della concorrenza. Questa sistematica incapacità al confronto, alla selezione e perciò al merito, indottaci da un falso modo di intendere democrazia, uguaglianza e solidarietà ci è costata forse il prezzo più alto: il rinunciare nei fatti alla politica, cioè alla scelta. Gli italiani hanno via via imparato a rinunciare a estromettere dalla politica i peggiori, gli analfabeti e i corrotti. Viceversa hanno progressivamente imparato ad accettare sempre più la menzogna, il deterioramento etico, la degenerazione e il pubblico malaffare.

Il popolo ha passivamente accettato che l’inquinamento del sistema progredisse senza capire che tutto ciò prima o poi si sarebbe ritorto contro di lui, contro i suoi figli, contro il futuro dell’Italia. Oggi siamo giunti ad accettare che la politica sia fatta tacere da un commissario autoritativamente nominato Capo del governo di salute pubblica. Una sorta di Gran maestro revisore dei conti che, imponendo agli italiani rigide regole provenienti dall’esterno della autonoma sovranità nazionale, a buon ragione, ha eclissato la politica dal suo ruolo di guida democratica, svilendo la funzione parlamentare ad un rito consunto e incredibile. Triste è l’ammettere che questa rovina prima di essere economica è fallimento morale dell’intera nazione.

Riscattiamoci da questo decadimento, riscopriamo anche singolarmente in noi stessi quei valori che hanno fatto grande l’Italia di un tempo. Non perdiamo la nostra dignità e il futuro dei nostri figli svendendoci di nuovo all’imbonitore di turno, che alle prossime elezioni ci prometterà il “meglio-di-tutto”, dandogli il voto. Non scegliamo chi sappiamo non meriti di governarci. Vadano a casa e non osino ripresentarsi al popolo italiano coloro che hanno portato l’Italia a questo punto.


di Alessandro De Rossi