All'alba della trattativa stato-mafia

venerdì 12 ottobre 2012


Ascoltare, riferire, interpretare, lasciar intendere... c’è tutto un rituale a mezzo tra stato e antistato ormai entrato nel gergo parlato (forse anche mimato) della “mafiologia”. I “mafiologi” - al pari di vaticanisti, parlamentaristi, quirinalisti e cremlinologi - sono ormai da decenni assurti al rango d’interpreti (forse volgarizzatori) del “patto stato-mafia”. C’è chi vorrebbe datare a fine anni ‘80 il “patto stato-mafia”. È solo evidente che i “mafiologi” siano spuntati dopo che il fenomeno mafioso abbia preso forma, ovvero nel 1963, con la nascita della commissione parlamentare antimafia.

Parole e fatti, mentre una nuova intercettazione di Massimo Ciancimino riapre la polemica sul teste chiave della procura di Palermo (ne dà notizia il settimanale Panorama in edicola il 12 ottobre 2012). E in tanti si rendono ormai conti che il “patto stato-mafia” è un antico collante, brevettato nella Sicilia dei primi anni del Regno d’Italia. Intanto la procura di Roma indaga per riciclaggio Ciancimino Junior che, il 12 settembre al telefono con un’amica (tale Santa), avrebbe raccontato di un interrogatorio subito a Palermo da parte di un colonnello della Dia. Ciancimino racconta che gli inquirenti si sarebbero molto raccomandati con lui: gli avrebbero detto che «fino al 29 ottobre - così scrive Panorama - che c’è il rinvio a giudizio eh, noi ha capito che noi siamo schierati con tutti quelli che hanno fatto le indagini sulla trattativa; siamo bruciati non faremo più carriera! L’elemento forte è lei. Lei ha fatto leggerezze, lei ha visto come stanno delegittimando tutto: non si esponga a cretinate. Frequenti pochissima gente! Cercano un appiglio per distruggere tutto!».

La procura di Palermo tiene costantemente sotto intercettazione Ciancimino, ma ora anche la Procura di Roma spia il teste chiave della “trattativa”: una guerra tra procure s’innesta nella storia d’uno dei patti più antichi d’Italia, e scandagliando solo su ciò che sarebbe avvenuto al crepuscolo della Prima Repubblica.

È lecito chiedersi perché la magistratura si sia svegliata solo nel 2012, e perché non abbia mai ipotizzato che il “patto stato-mafia” repubblicano (quello monarchico lasciamolo agli storici) sia nato nel 1944 in Sicilia, quando l’Isola era pronta a farsi 51esima stella ed il Banco non vedeva l’ora di stampare i dollari. Ovviamente sarebbe stato troppo, e così il Parlamento italiano concesse alla Sicilia il semplice rango di Regione autonoma. Infrantosi il sogno del dollaro, la mafia (almeno così narra Nick Tosches, storico giornalista del New York Times) avrebbe nei primi anni ‘50 elaborato il progetto di far migrare i capitali mafiosi nel caveau d’una banca del Continente, su Milano (all’epoca una delle città più ricche ed industrializzate dell’Europa post-bellica). Così, nei primi anni ‘50, la famiglia Rasini presentava in Banca d’Italia la “richiesta d’apertura di sportello bancario”. Prassi consolidata, se si fosse trattato di banca popolare avrebbero dovuto presentare circa un migliaio di firme dei sottoscrittori di quote, e dopo l’approvazione dimostrare l’avvenuta raccolta del danaro. La Rasini nasceva come piccola banca privata nel 1954, quando per aggiustare le cose bastava una telefonata democristiana: l’avventura terminava nel 1992, al crepuscolo della Prima Repubblica, quando la Popolare di Lodi inglobava la “banca della mafia”. Eppure la Rasini ha rappresentato un pezzo di storia nella “trattativa stato-mafia”: tra i suoi principali clienti annoverava Pippo Calò, Totò Riina, Bernardo Provenzano... ed ancor prima gli storici mafiosi a cui venne negata l’opportunità di fare della Sicilia una stella della bandiera Usa. Ed è sempre Nick Tosches che, nel suo I misteri di Sindona, motiva perché lo studio della mafia italiana non possa prescindere dalle vicissitudini bancarie del Belpaese.

Una leggenda metropolitana narra che nel caveau fosse custodito, e già da metà anni ‘50, un tesoro d’inestimabile valore: dollari, lire, marchi, oro... in quella banca (secondo la vulgata del vecchio Pci) sarebbero stati tesaurizzati sia i fondi dei servizi Usa per avversare il comunismo sia i cospicui capitali di Cosa Nostra. La storia ufficiale recita che la Banca Rasini Sas (società in accomandita semplice) di “Rasini, Ressi & C.” venne fondata negli anni ‘50 dai milanesi Carlo Rasini, Gian Angelo Rasini, Enrico Ressi, Giovanni Locatelli e Angela Maria Rivolta, e dal siciliano Giuseppe Azzaretto. Ma la storia degli Azzaretto (quindi della Banca Rasini) comincia a Palermo e finisce sempre nel capoluogo siciliano: sarà sempre la Procura palermitana (quella che indaga sul patto stato-mafia) ad ordinare il sequestro dell’archivio della Banca Rasini. È vero che la nobiltà ormai non contava più nulla, ma che c’azzeccava Giuseppe Azzaretto, nato povero e di umili origini a Misilmeri, con l’antica nobile e ricca famiglia Rasini? Soprattutto perché la Banca d’Italia evitava d’indagare su questo clan di banchieri? E perché s’ipotizza che, solo tra l’89 ed il ‘92 sarebbe stata in piedi una “trattativa”? Non dimentichiamo che il 15 febbraio del 1983 si svolse a Milano l’operazione “San Valentino”: grande retata della polizia milanese contro le cosche di Cosa Nostra annidate in città. Vennero arrestati Luigi Monti, Antonio Virgilio, Robertino Enea, l’intero clan Fidanzati, il clan Bono, Carmelo Gaeta e i relativi referenti palermitani. Emerse che Pippo Calò, Totò Riina e Bernardo Provenzano erano correntisti multimilardari della Banca Rasini. E che nessun organismo di controllo sul credito aveva mai osato invadere quel territorio bancario. All’epoca (nell’83) qualcuno timidamente abbozzava che c’era una volontà politica (un antico patto) in nome del quale i “mafiosi” operavano bancariamente su Milano, al civico 8 della centralissima piazza dei Mercanti. Intanto Giuseppe Azzaretto aveva tirato dentro anche suo figlio Dario: non dimentichiamo che Giuseppe era un Diccì della prima ora, uno di quelli che avevano giurato obbedienza allo Scudo Crociato dopo aver reciso ogni legame con gli indipendentisti. E furono gli stessi democristiani di Palermo ad introdurlo presso la segreteria di Giulio Andreotti, che protesse politicamente lui e la Rasini fino agli ultimi giorni della Prima Repubblica. Dopo la retata del 1983, furono gli stessi banchieri Diccì a consigliare agli Azzaretto di cedere la banca a Nino Rovelli (allora patron dell’Imi-Sir). Nino Rovelli, passato alla storia come grande elemosiniere democristano: diede 2 miliardi ad Andreotti, lo scrisse Mino Pecorelli ne Gli assegni del Presidente. Emerge che il patto è antico, forte e gode di divina investitura: Infatti Giuseppe Azzaretto sposava la nipote di Papa Pacelli. 

Secondo la baronessa Maria Giuseppina Cordopatri, storica correntista della Banca Rasini, «il vero dominus della banca non era il clan Azzaretto sic et simpliciter, bensì un certo Giulio Andreotti». Ed è la stessa Cordopatri a sostenere che «il patto stato-mafia c’era da sempre, la Rasini è un esempio». 

Anno fondamentale nel “patto bancario stato-mafia” è il 1973, quando la Banca Rasini diviene una Spa, ed il controllo passa dai Rasini agli Azzaretto. Perché nel 1974 (nonostante l’ottima situazione finanziaria della Banca) Carlo Rasini lascia l’istituto fondato dalla sua famiglia? Eppure solo nell’ultimo anno aveva guadagnato oltre un quarto del suo capitale. Carlo Rasini si dimette anche da semplice consigliere, e fonti storiche parlano di pressioni politiche romane. Alcuni analisti parlarono anche di mancanza di fiducia verso il resto del Consiglio d’amministrazione: quindi verso il clan Azzaretto.

Però le inchieste della magistratura non riusciranno mai a dimostrare che Nino Rovelli (imprenditore senza esperienza nel settore bancario) avrebbe rilevato la banca su ordine della Dc, e per coprire la storia di quella “trattativa”. Nel 1988 arriva il sequestro, da parte della Procura di Palermo, dell’archivio della banca: i giudici, a seguito delle rivelazioni di Michele Sindona (le interviste del 1985 al giornalista americano Nick Tosches) e di vari “pentiti”, indicano nella banca Rasini la cassaforte legale della mafia (una sorta di lavatrice lecita e coperta per decenni dalla politica). Quando Tosches chiede a Sindona “Quali sono le banche usate dalla mafia?”, Sindona risponde “In Sicilia il Banco di Sicilia e a Milano una piccola banca in Piazza dei Mercanti”. Proprio quel Banco di Sicilia a cui venne infranto il sogno d’emissione, lo stampare i dollari nell’Isola. Ecco la rivalsa, la conquista della finanza milanese (con l’appoggio della Diccì) grazie all’antico “patto stato-mafia”. Ovviamente il riferimento è all’accordo tra Dc e Cosa Nostra, siglato tra Lucky Luciano, Dipartimento di Stato americano e certi padri fondatori della Prima repubblica. 

(3/continua)


di Ruggiero Capone