Fondo Giavazzi? Una lacrima
Renato Brunetta è tornato a confermarlo anche ieri: nella legge di stabilità ci sarà spazio per un “fondo Giavazzi” in cui far confluire le risorse provenienti dal riordino del sistema dei sussidi pubblici alle imprese per finanziare un credito d’imposta per ricerca e innovazione e la riduzione dell’Irap, secondo lo schema suggerito dal professore bocconiano.
Passi il fatto che il rapporto Giavazzi non contemplava l’ennesimo credito d’imposta, della proposta originaria sembra essere rimasto solo il nome del suo autore, il quale a questo punto dovrebbe dire la sua. Il rapporto che il governo stesso gli ha commissionato, infatti, si è perso per quasi sei mesi nelle stanze dei ministeri per riemergere, infine, completamente svuotato. I 10 miliardi di risparmi ipotizzati, passati al vaglio dei tecnici dei ministeri, sono diventati prima 3, poi 500 milioni, secondo quanto riporta Alessandro Barbera su La Stampa: un ventesimo (l’1,5% della spesa totale). 
I fondi erogati attraverso le Regioni – oltre la metà del totale – si è persino rinunciato a catalogarli e a pretendere di sapere per quali scopi e in quali modalità vengono spesi. Poi sono stati esclusi tutti i contratti di servizio con Ferrovie (5 miliardi), Poste (500 milioni), Anas, le commesse militari (1,7 miliardi), i sussidi per le aziende del trasporto pubblico locale. In tutto circa 12 miliardi. Passi per i contratti di servizio e le commesse (che però si possono sempre riesaminare e ricontrattare), ma se si escludono anche contributi vari e crediti d’imposta (questi ultimi valgono 2,2 miliardi), che dovrebbero costituire l’oggetto principale della revisione, cosa rimane? Rimangono 3,2 miliardi, rubricati sotto la beffarda voce «da approfondire», dai quali però, secondo l’ultimo esame di coloro incaricati di approfondire, si potrebbero ottenere solo 500 milioni. Un po’ poco perché si possa ritenere credibile lo sforzo compiuto e perché si possa parlare di una vera spending review, che per definizione di chi l’ha inventata dovrebbe portare a rigiustificare da zero euro ogni singolo programma di spesa. E qui si tratta di mille minuscoli rivoli, alcuni tra l’altro con denominazioni talmente oscure e incomprensibili da legittimare il sospetto che chi li gestisce, nei ministeri, abbia interesse a non condividere lealmente le informazioni e a lasciare tutto com’è.
I poteri forti che si oppongono, evidentemente con successo, ad ogni taglio ai cosiddetti contributi alle imprese si possono distinguere in tre diverse categorie. Ci sono i grandi gruppi pubblici, che grazie ai trasferimenti statali si garantiscono una posizione di monopolio, o comunque di forza, nei loro rispettivi mercati. Le aziende municipalizzate, quindi gli enti locali, e le Regioni, che attraverso l’elargizione dei fondi, in forme più o meno velate, più o meno spudorate, controllano il consenso sul territorio. E infine, a livello centrale e apicale della pubblica amministrazione, i vertici dei ministeri, dove il gioco si fa più sottile e inafferrabile. È enorme, infatti, nei decenni, accelerata dal rapido susseguirsi dei governi, la stratificazione di fondi e crediti d’imposta di cui i politici non possono avere memoria ma certo la conservano gli apparati burocratici, che li conoscono e, di fatto, li gestiscono. Il rischio è che questa miriade di minuscoli fondi, dalla denominazione incomprensibile e dagli scopi ancor più ambigui, vengano utilizzati con estrema discrezionalità, e spesso come strumenti di autopromozione presso i politici e dei ministri di turno, dagli alti e inamovibili burocrati dei ministeri. Gli stessi guarda caso chiamati a verificare la fattibilità di un rapporto che propone di tagliarli. E che con un’opacità più che sospetta, una padronanza della materia un po’ sacerdotale, ci spiegano che servono, anche se non a cosa, e che si possono tagliare solo 500 milioni.
Possibile che il professor Giavazzi e il suo team siano stati così imprecisi nella stima dei fondi da tagliare? È questa la cifra che confluirà nel fondo dei volenterosi Brunetta e Baretta? E dei 6,7 miliardi liberati dalla rinuncia alla riduzione dell’Irpef (1 miliardo nel 2013, 3,2 nel 2014 e altri 2,5 nel 2015), cosa rimane per il taglio dell’Irap se nei primi due anni se ne spendono 2 per lavoro e famiglia, come previsto dall’accordo tra i relatori, e se restano da finanziare la salvaguardia di altri “esodati”, minori tagli ai Comuni, alla scuola e al comparto sicurezza, e altre misure «per il sociale»? Resta una goccia, o piuttosto una lacrima. Nominare “Giavazzi” un fondo così finanziato e concepito sarebbe solo un modo per confondere le acque. Far credere che si è agito laddove non si è mosso un dito è il miglior modo per difendere lo status quo. 
Sui 33 miliardi che lo Stato spende ogni anno occorre chiedere, e ottenere, assoluta chiarezza, perché le troppe voci inserite nella colonna «non eliminabili» sembrano nascondere semplicemente la volontà di non agire. Ed è il momento di capire se almeno è una volontà politica, o l’inerzia di vari interessi costituiti.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:08