Ciò che Alfano sta davvero tradendo

Il tradimento non è una categoria della politica. Non attiene al gioco lineare della dialettica amico-nemico. Esso è in genere, la banalizzazione comoda di una complessità oppure la frustrazione di una sconfitta non accettata.
Quelli che provano a spiegare lo strappo di Alfano nei confronti di Berlusconi con il tradimento, fanno ideologia e non politica.

Alfano non ha accoltellato alle spalle Berlusconi, non gli ha mandato sicari contro, né si è appoggiato ai suoi nemici per eliminarlo. Molti di quelli che oggi attorniano Alfano vengono dalla scuola ciellina di Don Giussani, ma ciò che è avvenuto nei giorni scorsi sembra uscito dalle pagine di Machiavelli: “Un signore prudente non può, né debbe, osservare fedeltà quando tale osservanza li torni contro, o si sono spente le cagioni che la fecero promettere”.

Quello di Alfano è stato un atto politico, fondato sul calcolo delle proprie forze, sull’individuazione dell’obiettivo e sulla determinazione per raggiungerlo. Per questo le conseguenze di questo atto saranno politiche. I “lealisti berlusconiani”, coloro che in questo scontro sono rimasti attorno al loro leader, dovrebbero evitare di cadere nella trappola della psicologia del tradimento.

Anche perché, ora, l’obiettivo cambia: non è più la fiducia ad un governo che rimane fragile nei suoi equilibri interni, nella mai sopita conflittualità tra Pdl e Pd (evidenziata dal voto per la decadenza del Cavaliere), e comunque commissariato da Bruxelles e dai veri poteri che impongono le scelte al nostro Paese. La partita in gioco è se si determinerà il definitivo passaggio di consegne dalla leadership naturale di Berlusconi a quella tutta da inventare di Alfano, il quale ha la necessità di garantirsi il controllo di un partito che non ha mai saputo né potuto governare.

Le possibilità sono due: una “pacificazione interna” con il recupero di quella parte di classe dirigente rimasta con Berlusconi ed esclusa dalla partecipazione al governo; oppure lo scatenamento di una guerra civile per la conquista totale del Pdl, uno scontro cruento e definitivo.

 La seconda opzione è quella che aprirebbe la strada alla separazione in due gruppi parlamentari e magari in due partiti: quello che Berlusconi vuole evitare a tutti i costi, quello che Alfano non sembra voler evitare e quello che molti dei suoi sodali vogliono realizzare. Se prima il problema erano i falchi berlusconiani (Verdini e Santanchè), ora il problema sono i “falchi alfaniani” (Quagliariello, Cicchitto e i ciellini) che spingono per la rottura allo scopo di rendere effettivo il desiderio di Napolitano e Letta: archiviare definitivamente il Cavaliere rendendolo superfluo per via politica dopo la sua eliminazione per via giudiziaria. La politica è rapporto di forza, ed in un partito la forza è dettata dai voti, dal consenso, dalla capacità di aggregare segmenti sociali; tutto ciò che, fino ad oggi, Alfano non ha avuto e che non gli serviva avere, perché tanto provvedeva Berlusconi.

E non è detto che, in caso di rottura, la residua eredità di ciò che rimane del consenso berlusconiano sia appannaggio suo. L’unica certezza è che si stanno scaldando i motori per una nuova Democrazia Cristiana, senza De Gasperi, né Moro, senza Cossiga né Andreotti, ma con Formigoni e Lupi. La rivoluzione liberale inseguita da Berlusconi e mai realizzata per 20 anni è ormai un sogno archiviato. Il Pdl di Alfano ha una sola parola d’ordine: “moderatismo”. Il suo spostamento al centro tranquillizza i mercati e la tecnocrazia europea e consente di conservare caldo il posticino nel PPE, quel Partito Popolare Europeo vero braccio armato della Merkel in Europa. Alfano forse non ha tradito Berlusconi; ma ciò che sicuramente sta tradendo è il suo progetto politico e l’idea di un’Italia libera.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:50