Le tante problematiche dell’Agenda Digitale

giovedì 7 novembre 2013


L’idea proposta da Parisi di Confindustria Digitale al suo Forum del 21 ottobre è stata quella di spingere a qualsiasi costo sull’acceleratore per centrare gli obiettivi dell’Agenda Digitale europea. Fare il digitale anche con la forza, con un Digital Compact assimilabile al Fiscal Compact che ha imposto all’Italia politiche di rigore con un rientro da 30 miliardi l’anno fissato in Costituzione. L’idea porta ad un primo interrogativo: è possibile fare politiche di sviluppo in modo coercitivo, nelle condizioni già restrittive in cui versa la libertà dello Stato di impiegare i fondi che ha a disposizione? La risposta di Confindustria è che un piano coercitivo di sviluppo digitale si ripaga da sé, grazie all’aumento di Pil del 2% atteso.

 Quest’aumento di Pil è stato da tempo, già dal 2009, sventolato ogni volta come la terra promessa da parte dei fautori degli investimenti per la banda larga. In cosa consistono i fattori che garantiscono una crescita annua da 30 miliardi, equiparabili a quelli dovuti pr il rientro del debito pubblico? In primo luogo l’aumento degli internauti italiani che sono il 53% della popolazione e devono diventare il 75%, passando da 31 milioni a 45. L’aumento di 14 milioni di consumatori di web si può ottenere solo con prezzi più bassi, con più possibilità di accesso , cioè con più investimenti e con vaste campagne pubblicitarie e soprattutto con obblighi normativi relativi all’identità, alla fiscalità ed alla sanità digitali. A parte la reazione negativa a nuovi obblighi per cittadini e imprese, gli altri fattori rappresentano immediati nuovi costi a fronte di sperati nuovi incassi.

L’aumento degli internauti garantisce più pubblicità, ma non l’aumento dell’e-commerce che è la chiave di volta dell’aumento di Pil. L’aumento di internauti è collegato alla fornitura di banda larga. Dopo i passati trionfalismi, ora Confindustria mostra la maschera più mesta, con un magro 14% a fronte del 54% europeo. In realtà la banda larga mobile italiana collega già il 57% della popolazione. Il problema del digital divide, cavallo di battaglia egualitarista, cozza col dato di fatto del dualismo produttivo italiano. Dove l’impresa non c’è, non c’è richiesta di banda larga. Né l’arrivo di banda larga crea un omogeneo numero di nuove imprese. L’ input obbligatorio di portare dovunque i 30M\s, alle Telco italiane, in primis, Telecom, in temi di grave calo dei ricavi, senza aiuti nazionali o europei C’è poi l’aumento dell’uso dei servizi di egov, che dovrebbe passate dal 19% al 44%.

Nel 2011 l’Italia conquistò il podio dei servizi pubblici online (99% su 82% media Ue ) grazie alla digitalizzazione di dichiarazione dei redditi, sicurezza sociale, ricerca di lavoro, registro automobilistico, licenza edilizia e di nuova impresa, certificati (albo pretorio online), iscrizione a scuole, servizi sanitari, contributi sociali, appalti pubblici. Non è però corrisposto un effettivo uso dei servizi, come hanno dimostrato i casi Pec e Cicklavoro. Adesso più di un miliardo è stato impegnato per il back office dei 3000 data center (da ridurre a 300) e per gli enti locali impegnati nelle smart cities. Grande lo sforzo per digitalizzare la scuola e l’università senza per ora passare del tutto all’e-book.

L’impegno di Caio su due punti (tra i 3 considerati prioritari) di Identità Digitale e Anagrafe Unica rimette al centro la CAD che a suo tempo era stata criticata per eccessiva fretta e autoritarismo. Per fine 2013 si dovrebbe realizzare solo la digitalizzazione delle anagrafi delle Province. Finora ha funzionato solo ciò che è stato reso obbligatorio. Il digitale è mandatario solo per l’impresa, sia che faccia le dichiarazioni dei redditi anche dei cittadini, sia nel caso del certificato di malattia telematico, sia per le comunicazioni di bilancio, Inps, Inail. Ben difficile resta digitalizzare per legge l’assunzione. Il 3° impegno di Caio, quello della fatturazione elettronica, sarà il prossimo obbligo per l’impresa.

Perché i cittadini in massa usino i servizi egov, si attende la completa digitalizzazione di sanità, catasto e anagrafe; i ritardi di alcuni territori giocano a rimandare i tempi di tutto il meccanismo, che non è sostenuto da gran favore tra la cittadinanza. Il massivo impiego delle forme di e-democracy potrebbe portare più entusiastica adesione. Finora però la trasparenza necessaria, con dati sensibili ed open data, è andata avanti a macchie di leopardo. Inoltre la monotona applicazione della democrazia elettronica spegnerebbe molte velleitarie illusioni di comitati minoritari, che sul virtuale avrebbero lo stesso peso che hanno nella vita reale, cioè ben poco. Anche qui un egov fattivo e di massa richiede molti costi e la progressiva trasformazione della PA, non che un suo dimagrimento economico. È prevedibile che solo il turn over con la trasformazione generazionale dei dipendenti porti all’obiettivo.

I risparmi nel frattempo si possono ottenere solo con più balzelli e con il blocco di molti servizi, a causa di documentazioni insufficienti. Sicuramente l’aumento dell’uso dell’e-gov non garantisce l’aumento dell’ecommerce in acquisto da parte dei cittadini, oggi in Italia al 17% mentre in Europa è del 45% (obiettivo 2015, 50%). Lo potrebbe garantire una convenienza di prezzo e fiscale. Purtroppo oggi non ci sono né l’una né l’altra, anzi. Lo sconto spesso ottenibile in negozio sul web non c’è. Le campagne web sconto fatte per esempio da Buffetti sono spesso disconosciute nelle sedi fisiche della catena. Per il fisco, qualunque oggetto in rete è software, così l’e-book ha l’Iva al 22% mentre un libro fisico gode del 4%. Senza parlare della pirateria che disinvoglia da qualunque interesse di mercato.

L’utente si abitua a fruire prima dell’enorme parco di ciò che è gratis, legalmente o illegalmente e fa uso delle preferenze dentro quest’ambito che gode di un’enorme vantaggio competitivo. Il business principale sulla rete, come già è stato per la Tv è la pubblicità, un classico business to business cui l’utente resta direttamente estraneo. Ci sono molti ambiti, dal commercio al turismo, dove si intrecciano opportunità materiali e virtuali; queste potrebbero ingigantirsi grazie al combinato disposto dei dati raccolti dalla videosorveglianza e dell’Internet delle cose, il che è prossimo ad avvenire. Non sarà però né la politica di sviluppo, né l’Ue, né la partitica a far esplodere l’e-commerce, sia in offerta che in domanda, da parte di cittadini e da parte delle Pmi, che oggi è al 4% contro il 14% europeo ed il 33% dell’obiettivo 2015.

L’uso del pagamento mobile via cellulare/smartphone insieme alle tecnologie di prossimità e di riconoscimento digitale delle cose porterà improvvisamente cittadini e Pmi ad aderire all’e-commerce, a prescindere da tutte le altre condizioni. Un trend tecnologico mondiale, che come già avvenuto in altri campi, travolgerà l’insieme politico e mercantile europeo, rendendo obsolete molte discussioni. Fin qui, non si vede come l’insieme di più banda larga, Internet, e-gov ed e-commerce garantirebbe l’aumento dei famosi 30 miliardi di cui sopra. Secondo l’idea di Confindustria, l’agenda digitale dovrebbe supportare la crescita delle imprese, aumentare la presenza Internet, dare quindi più lavoro ai giovani; poi dovrebbe ridurre il deficit pubblico, grazie alla maggiore efficacia ed efficienza Pa, con minori sprechi ed un maggior ritorno dalla lotta all’evasione fiscale.

Anche Caio ha parlato di un possibile recupero fiscale per 15 miliardi, grazie alla fatturazione elettronica, alla sanità digitale, al cloud computing, all'eProcurement ed ai pagamenti elettronici. In un paese che ha perso dal 2007 1,2 milioni di lavoratori e, nell’ultimo anno, circa mille imprese al giorno, fa sorridere che una stretta delle spese pubbliche (già in atto), di obblighi per le Pmi , della ristrutturazione dei servizi possa far fruttare più incasso fiscale. Sarà semmai minore. Alcuni sprechi, come noto, sono dovuti alla frammentazione degli enti ed alla mancanza di costi standard PA, questioni che dipendono non dai risparmi ma da riforme degli enti medesimi. Infatti il primo mercato a non essere unico è proprio quello delle Pa, tutt’oggi divise in migliaia di data center e di centri di spesa.

Più Internet può aiutare l’impresa come metterla ancora di più sotto una maggiore concorrenza. E’ sicuramente nel giusto Confindustria quando parla di maggiore occupazione giovanile se la si associa ad un saldo complessivo occupazionale negativo. Infatti tra le righe del piano si intravvede la necessità di espellere molti lavoratori non giovani dal mercato proprio per poter accelerare l’innovazione organizzativa delle imprese e delle Pa. Restando uguale all’attuale il sistema degli ammortizzatori sociali, dovrebbe così aumentare ulteriormente la spesa relativa che ha raggiunto negli ultimi due anni l’importo di un miliardo. Con coraggiosa sincerità Parisi sul tema non si è tirato indietro, chiedendo a chiare lettere una liberalizzazione da lacci e lacciuoli del mercato del lavoro dalla filiera digitale. Il premier Letta ha ribadito queste parole, anche per rendersi più accetto nel sostegno all’agenda digitale europea della commissaria Kroes.

In realtà Confindustria, adattandosi al contesto, punta almeno e soltanto alla fornitura di servizi digitali per la Pa, essendole preclusa qualunque altra sfida nel settore, in presenza dell’occupazione stabile da parte dei grandi monopoli mondiali di quasi tutti i segmenti della filiera digitale e della comunicazione. L’AG europea, assieme al pacchetto di norme riformatrici delle Tlc, che Letta è corso a sostenere, in grande solitudine, non è centrata come in Italia sulla Pa. È basata sul mercato privato, a partire dal famoso mercato unico Tlc e quindi sulla forza delle Telco che devono diventare capaci di offrire servizi ( tra cui e-gov, e-commerce, banda larga) a tutto il continente, ed in prospettiva al mondo.

Si tratta di una prospettiva inconcepibile per il Belpaese dove le Telco devono vendere a prezzi sempre inferiori, perdono sempre più ricavi e sono tutte straniere. Dove l’ex incumbent è allo sbando, pronta a vendere gli ultimi stabili che ha (data center e centrali), ed è al bivio tra andare sotto il controllo della spagnola Telefonica, oppure tornare ad una vagheggiata e impossibile proprietà pubblica o diventare una improbabile public company, in mano alla ex Cirio ed a sconosciuti fondi d’investimento, ciascuno con il 5% di proprietà, provenienti dai quattro angoli del pianeta. Solo una fusione pesata tra le grandi Telco europee continentali ( e tra i loro debiti) salverebbe insieme le prospettive digitali italiane e le possibilità europee di competere con i giganti digitali del mondo, Oggettivamente a Confindustria Digitale non si può chiedere tanto, avendoci pensato a farlo l’Etno a livello confindustriale europeo.

Politica e sindacato, strettamente sulla difensiva, attendono gli eventi, sperando non siano i più terribili. E fanno finta nel frattempo di credere che l’Agenda Digitale italiana sia la stessa di quella europea.


di Giuseppe Mele