L’Italia bocciata sulla diffamazione

“Le norme penali sulla diffamazione ora in vigore in Italia non rispettano pienamente gli standard europei sulla libertà d’espressione”. Il severo giudizio è contenuto nel documento ufficiale della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa (nella foto), specializzato in questioni costituzionali. Il gruppo di esperti incaricato di effettuare un accurato “screening” sulle leggi italiane e le proposte di riforma hanno effettuato diverse audizioni in Italia prima di redigere la relazione con suggerimenti e raccomandazioni.

Gli esperti non si sono limitati a fotografare la situazione esistente, ma hanno ritenuto opportuno indicare alcune soluzioni da adottare in occasione delle decisioni che dovrà prendere il Senato in seconda lettura. La riforma varata dalla Camera il 17 ottobre 2013 “non va bene”. È il terzo giudizio negativo dopo quello dell’Ocse e dei componenti del settore dell’Onu per la libertà di stampa. Cosa bisognerebbe modificare? Il reato di diffamazione va innanzitutto depenalizzato per la Commissione di Venezia perché, affidando al Codice civile le richieste di ripristinare la reputazione, si può evitare l’effetto di far pressione o condizionare l’informazione giornalistica.

Introdurre nell’art. 595 del Codice penale, che punisce la diffamazione, delle norme esplicite che affermino la finalità di tutelare la difesa della verità, dell’interesse pubblico e del giornalismo responsabile. Occorre quindi modificare l’articolo successivo per consentire a chi è accusato di diffamazione di provare le sue affermazioni. Sempre in ordine al Codice penale andrebbe abolito il quarto comma dell’art. 595 e rivisti gli articoli 278, 290 bis e 291 che riguardano rispettivamente le offese nei confronti del corpo politico, amministrativo o giudiziario, del Presidente della Repubblica, della Nazione per tutelare la discussione politica e il dibattito d’interesse pubblico.

Va esteso il segreto professionale tenendo conto che ordinare da parte del giudice di rivelare le fonti fiduciarie di una notizia può essere considerata un’interferenza in contrasto con l’art. 10 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo sulla libertà d’espressione. Oggi le norme del Codice di procedura penale concedono al giudice la facoltà d’imporre al giornalista di rivelare le fonti (ma la legge dell’Ordine dei giornalisti dice il contrario), se lo ritiene indispensabile. Vanno ridotte le sanzioni e rese proporzionali alle capacità economiche dell’autore dell’articolo e dell’editore. Per la commissione del Consiglio d’Europa la severità delle sanzioni italiane è motivo di preoccupazione.

I risarcimenti per danni devono essere giusti. Sproporzionata è la sanzione del carcere. La Commissione di Venezia osserva “il disegno di legge in discussione al Parlamento rappresenta indubbiamente uno sforzo per migliorare, modernizzare e rendere conforme a quanto prescritto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo la legislazione italiana sulla diffamazione”. È un passo avanti che va concretizzato come occorre un rafforzamento del diritto di replica e di rettifica, accompagnato dall’introduzione di limiti all’ammontare delle multe che possono essere comminate e all’uso di misure penali. Va tolta, infine, la possibilità per il giudice di ordinare il divieto temporaneo di esercizio della professione giornalistica per chi è stato condannato. Il potere disciplinare spetta agli organi preposti della categoria per evitare che i giornalisti, soprattutto delle piccole testate e dei giornali locali, si autocensurino nel fornire informazioni.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:52