Lo Spazio Lidu su “L’Opinione”

Nuovi contributi e contenuti in virtù dell’accordo realizzato dal quotidiano “L’Opinione” con la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo che prevede uno spazio settimanale sul nostro giornale on-line dedicato alle attività e approfondimenti a cura della Lidu.

L’Europa nell’Antropocene

di Riccardo Scarpa

L’Italia è stata sanzionata con una multa di 150mila euro al giorno dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea pel mancato recepimento della direttiva numero 63, approvata nel settembre del 2010, sulla protezione degli animali utilizzati a scopi scientifici, che regola lo svolgimento di test sulle cavie. La decisione è stata presa in seguito al ricorso presentato dal Commissario Ue all’Ambiente, Janez Potocnik. La sentenza non poteva che essere questa. Le fonti legislative comunitarie sono due, oltre alle norme dei trattati istitutivi: i regolamenti, che hanno pienezza di contenuto dispositivo, e quindi non hanno bisogno di essere recepiti ma solo osservati, in quanto sono leggi a tutti gli effetti; le direttive, che non hanno pienezza di contenuto dispositivo poiché mirano all’armonizzazione delle diverse norme nazionali, e quindi debbono essere recepite con legge nazionale. Se uno Stato membro non lo fa nei termini previsti dalla direttiva stessa viene sanzionato, su ricorso della Commissione, l’Istituzione di governo dell’Ue cui spetta vigilare sul rispetto del diritto comunitario da parte degli Stati membri, alla Corte di Giustizia. In questo caso, solo l’Italia, tra tutti gli Stati membri, non ha recepito la direttiva nei tempi prescritti. Si badi bene, però, che se la direttiva comprende qualche norma direttamente applicabile, ad esempio un divieto che di per sé non ha bisogno d’altro per essere una disposizione piena, allora quella norma va applicata e l’eventuale disposizione nazionale in contrasto va disapplicata. Nel caso di specie, è da considerarsi adesso vietato in Italia ogni test sugli animali, proprio in quanto manca una norma nazionale che li regoli in modo conforme alla direttiva. Il Codice Penale italiano, all’art. 544- bis, punisce con la reclusione da tre a diciotto mesi chi cagioni la morte di un animale per crudeltà e senza necessità, e l’art. 544-ter sanziona il maltrattamento degli animali. I test sugli animali producono sofferenze e morte ad animali giustificate dall’esimente costituita dalla norma nazionale che le legittima, ma se questa norma entra in contrasto con l’ordinamento comunitario in quanto non è stata attuata la direttiva che regolamenta la materia, allora la norma esimente va disapplicata e vanno applicate le sanzioni penali suddette, in tutti i casi in cui il test causi la sofferenza e la morte dell’animale. Lo scorso giugno l’esecutivo comunitario aveva già lanciato un primo avvertimento alle autorità italiane emettendo un cosiddetto “parere motivato”, prima di avviare la procedura d’infrazione davanti alla Corte di Giustizia. La data limite per la sua introduzione della nuova disciplina nel diritto nazionale era fissata nel novembre del 2012, mentre il primo di gennaio del 2013 è scaduto il termine ultimo per la sua applicazione. Nel tristo Paese il testo del decreto legislativo destinato a recepire la direttiva europea, dopo essere passato dalla Camera, è ancora fermo al Senato e tutto il suo iter rileva la fondatezza delle critiche dell’onorevole Michela Brambilla, la quale sottolinea l’assoluta insufficienza delle tutele previste per gli animali. Infatti la nuova direttiva europea è più restrittiva rispetto a quella del 1992, che disegna la normativa ora in vigore in Italia, e dalla quale poco si distacca la nuova all’esame del Senato. I diritti ad una vita sana e senza sofferenza di ogni essere senziente non può che interessare anche la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, in quanto questa sfera di garanzie per gli animali non è in contrasto col diritto alla vita ed alla salute degli esseri umani. I diritti degli esseri umani furono i primi ad essere concepiti come diritti naturali, poi un lungo processo di positivizzazione ne sta segnando l’affermarsi negli ordinamenti giuridici, pur tra le resistenze ed ostilità ben note. Adesso occorre pensare all’inserimento dei diritti degli esseri umani tra i diritti della natura, come sfera della vita, e degli esseri senzienti in essa. I disastri ambientali annunciati e poi subiti nascono da lì, da questa età in cui la specie umana s’è tirata fuori dai legami fraterni con gli altri figli di madre natura, questo “Antropocene” in cui una specie crudele e devastante cerca il benessere nella sofferenza delle altre specie, oltre che degli individui meno fortunati della propria (un chiaro cannibalismo sociale), e giustamente poi patisce il contrappasso delle pene inferte.

I rischi per la salute dei lavoratori

di Giovanni Grieco (professore di medicina del lavoro)

Il sistema di sicurezza del lavoro appare abbastanza evoluto ed i risultati, più in altri Paesi industrializzati che in Italia, sembrano dare qualche effettivo segno positivo per il calo di morti, infortunati, malati per causa di lavoro. Tuttavia ne rimane una significativa quota. I miglioramenti dipendono dall’evoluzione tecnologica e dall’adeguamento delle leggi in proposito (queste, però, per essere minuziose, presentano anche difficoltà di puntuale applicazione), pur se da noi gioca in negativo il costume ed anche la condizione economico- finanziaria. C’è, tuttavia, da considerare la quota dipendente dal lavoro fuori norma, più o meno in nero che sia (ma questo non è censito!). Molti morti, infortunati, malati da causa di lavoro stanno nell’area degli infortuni prevedibili, ma non prevenibili con l’attuale sistema di sicurezza del lavoro che al massimo potrebbe (farebbe bene a farlo), magari, far integrare il protocollo aziendale di sicurezza con informazione quotidiana di eventuali variazioni, anche temporanee, comprese situazioni particolari del singolo lavoratore intervenute. Non sono dati irrilevanti, considerato che il documento della sicurezza è un dato statico, mentre il lavoro si svolge nella quotidianità. Inoltre, nella descrizione dell’infortunio, richiedere descrizione di circostanze presenti al momento nel quale si è determinato. Questa tipologia di rischi, realizzandosi in danno, implementa significativamente le statistiche. Per essi non è efficace l’attuale sistema di sicurezza del lavoro, mentre esistono le possibilità tecnologiche ed organizzative per evitarli, intervenendo sul fattore esposizione. Non si tratta di piccole cifre; si pensi all’infortunio in itinere. Su questi si è concentrata da anni la mia attenzione e non è campo di ordinaria sicurezza del lavoro; il problema non è solo di tecnologie o metodiche per la sicurezza del lavoro. Per alcuni di essi (lavoro in miniera, scavi, tunnel, manipolazione di esplosivi, gas o tossici ambientali, lavori su impalcature e tralicci ecc.), laddove i sistemi sicurezza per il lavoratore in atto risultassero inadeguati o insufficienti, si tratta di cambiare strategia, intervenendo sul fattore esposizione. Ciò oggi è tecnicamente possibile col combinato disposto automazione- comunicazione digitale che può annullare il fattore esposizione. Non servono altre parole per spiegare che se l’operazione a rischio dell’addetto la fa un automa, governato da un operatore a distanza di sicurezza, non ci sarà il morto o l’infortunato. Altrettanto si può dire per l’infortunio in itinere, se la mole di lavoro burocratico-amministrativo e perfino l’istruzione teorica fossero telematizzati, questo rischio, imprevedibile nel tempo e nella sua modalità, si abbatterebbe molto, molto efficacemente. Questo, certo, non è tema da addetti alla sicurezza del lavoro. Questo è un tema che impone un viraggio di cultura, di gestione politica della comunità. Il problema del rischio in itinere è più complesso, perché dipende dall’entrata in scena della mobilità delle persone, con le possibilità di mezzi di trasporto individuale e collettivo. Ciò ha fatto capovolgere la prassi precedente, cioè dell’azienda che va verso i luoghi di maggiore disponibilità di manodopera. Con l’evoluzione dei mezzi di trasporto, dal Novecento il flusso si è invertito e c’è il pendolarismo quotidiano di lavorato. È un fenomeno generalizzato che, però, vede maggiore causa di rischio nell’uso di mezzi individuali di traporto. Ne conseguono incidenti con morti e feriti che non ci possono lasciare indifferenti. Sorge, quindi, la necessità di porre il problema sul tappeto, per valutare le alternative possibili, come ad esempio l’obbligo di localizzazioni industriali dove c’è bacino di personale necessario, anche se da addestrare nelle more della costruzione ed allestimento degli stabilimenti industriali, oppure di predisporre, dove è indispensabile la mobilità del personale, il trasporto collettivo che statisticamente è a minor rischio di quello individuale, anche come obbligo del lavoratore, non opzionabile. Tuttavia, ci sono grandi settori di attività produttive che possono vedere l’impiego di telelavoro. C’è gran parte dell’istruzione pubblica e ci sono i settori amministrativi pubblici e privati che possono essere informatizzati, con effetti positivi contro l’infortunio in itinere, senza contare altre grandi e importanti ricadute, come la liberazione delle strade urbane dal traffico e, quindi dall’inquinamento ambientale, oltre al recupero abitativo dei tanti stabili occupati per lavoro burocratico e d’ufficio e per le scuole. In tema, vi sembra mai possibile che tra fine Ottocento e primo Novecento si capì che il potere pubblico si doveva caricare dell’alfabetizzazione e, invece, oggi l’alfabetizzazione informatica fa appena capolino in qualche scuola e non c’è sistema di recupero per le generazioni oltre quelle della scolarità? Ci si affida alla buona grazia del venditore di computer. D’altra parte, vediamo lo scandaloso affastellamento di computer negli uffici, ignorando che il transistor ha cambiato radicalmente per ogni applicazione umana il senso del tempo e dello spazio. Sulle modalità del lavoro in ordine alla sua evoluzione tecnologica, si deve adeguare la sicurezza della salute dei lavoratori. Il tema soprattutto è di ordine politico, nel senso della politica che gestisce gli interessi globali dei cittadini e tra questi c’è il diritto all’incolumità e alla vita, ma di ciò l’attuale cosiddetta politica si disinteressa. Anzi è una procedura lontana dagli interessi dei cittadini, anche nelle cosiddette democrazie, altra finzione. La democrazia offre l’arma del voto; ma, penso, che finché il voto sarà segreto, con deresponsabilizzazione dell’elettore, è un’arma spuntata (già Cicerone, quando nel Senato di Roma si passò dal voto palese a quello segreto, preconizzò la fine della gloriosa Res Publica di Roma. Così fu). Per quanto riguarda la democrazia, mi pare che mai come oggi valga la definizione che ne dette Aspasia, l’etèra di Pericle: “La democrazia è un governo aristocratico col consenso del popolo”. Con la sola differenza che ora l’aristocrazia (del profitto) sta dietro la scena a muovere coi fili i burattini ed il popolo si pasce di slogan e di promesse diversive.

Del mangiar carne

di Roberto Vismara

Uno scienziato affronterebbe il problema dell’alimentazione umana considerando, ad esempio, la dentatura: la presenza contemporanea di incisivi e canini pronunciati (per tagliare e lacerare) assieme a molari ben sviluppati (per triturare fibre e grani) denuncerebbe chiaramente che ci troviamo di fronte ad un animale onnivoro, che trae sostentamento sia da vegetali di ogni genere (tuberi, radici, granaglie, foglie) che dalla carne di altri animali. Un cultore dell’esoterismo, cioè un cercatore di verità più nascoste, potrebbe non accontentarsi di ciò. E dunque potrebbe elucubrare sulla carne che si nutre di carne, sulla vita che si nutre di vita, su mortali che si cibano di morte, dalla quale costruiscono la vita, e così via. Sappiamo che la setta dei Pitagorici praticava il vegetarianismo, così come gli Esseni e molte altre confraternite iniziatiche dell’antichità; ma c’erano altre vie iniziatiche che al contrario praticavano la crapula e l’ebbrezza come via di conoscenza. Ogni alterazione dello stato di coscienza, comunque perseguita, può essere una porta per accostarsi al “Grande Mistero”: tra l’altro questo è il nome che gli Indiani delle Praterie davano alla loro Divinità, Huakan Tanka. Poi torneremo sugli Indiani d’America; ma continuiamo con l’alimentazione. I nostri più antichi progenitori erano creature “scimmiesche”, arboricole, che si nutrivano di foglie e frutti, probabilmente con un’integrazione di insetti e larve come gli odierni gorilla e scimpanzé, i più vicini a noi nella scala biologica. A seguito delle mutazioni climatiche dovettero abbandonare gli alberi per le praterie, sviluppando di necessità la posizione eretta, con lo sviluppo eccezionale del cervelletto che consente quel miracolo di statica ed equilibrio che è la deambulazione, la corsa, e, non secondariamente, la danza. Liberarono definitivamente gli arti superiori dalla deambulazione potendoli così dedicare alla manipolazione di oggetti, sempre più precisa e sofisticata; questo portò anche a modificazioni della visione, e quando si aggiunse lo spostamento dell’osso ioide che consentì la fonazione articolata (il dono della parola) furono poste le condizioni necessarie per l’evoluzione successiva. Questa portò dei Primati a diventare Uomini: soggetti capaci di camminare, correre, arrampicarsi, costruire strumenti e utilizzarli e lanciarli, cioè di supplire a quelle carenze fisiche che li rendevano soprattutto “prede”, per diventare “predatori”. Anche la loro alimentazione, di necessità, mutò, arricchendosi sempre più delle proteine nobili della carne di altri animali. Le strade dell’evoluzione socioeconomica si divaricano ad un certo punto: alcuni gruppi restano cacciatori-raccoglitori nomadi, altri diventano agricoltori, e in seguito anche allevatori, stanziali. Sono questi ultimi che danno origine alla città, abitato permanente che diviene nel tempo crocevia di scambi ed in cui si realizza la divisione del lavoro, cioè in definitiva l’inizio della civiltà come noi la conosciamo. A quel punto il cervello ha già compiuto la sua evoluzione, dapprima aumentando di volume, poi aumentando la sua superficie con le circonvoluzioni, e in definitiva tessendo una rete fittissima di reti sinaptiche che con la loro “plasticità” consentono tuttora l’evoluzione di un pensiero sempre più complesso. Organizzazione sociale sempre più complessa e stratificata, religione, filosofia, arte... tutto deriva dalla possibilità di liberare almeno una parte della popolazione dalla quotidiana necessità di procurarsi il cibo. E torniamo al cibo. Senza entrare troppo nei particolari (scorte e accantonamenti alimentari per far fronte alle stagioni e alle carestie, conservazione degli alimenti attraverso la cottura, l’affumicatura, la salatura, ecc.) possiamo dire che l’umanità si affranca sempre più dalle necessità del quotidiano, e sempre più libera energie da dedicare ad altro. Tutti noi ricordiamo, o abbiamo contezza, della vita contadina fino a pochi decenni fa, in cui la produzione e la conservazione del cibo aveva un ruolo primario nella vita degli uomini. L’organizzazione sociale ne derivava automaticamente, con la struttura di famiglie allargate che convivevano assieme, sfruttando collettivamente risorse comuni, i campi, gli allevamenti, gli orti, e dividendone i frutti, che solo in parte erano destinati allo scambio che consentiva l’acquisto di ciò che non si produceva in proprio (lo stesso vocabolo “salario”, denaro destinato all’acquisto del sale lo indica chiaramente). Tutto questo consentì un aumento della popolazione altrimenti impensabile, e quindi un incredibile arricchimento delle potenzialità culturali dell’uomo. L’incremento della produttività agricola ha consentito l’avvento della produzione industriale di beni assegnando sempre più all’agricoltura un impiego marginale di addetti rispetto ad altre attività, produttive di beni e servizi sempre più “rarefatti” e immateriali, i cui addetti oggi rappresentano la maggior parte della forza-lavoro nelle società evolute. Come si è modificata l’alimentazione umana in conseguenza di ciò? Per capire uno di questi passaggi voglio citare una vecchia definizione che i medici di uno o due secoli fa davano della calcolosi urinaria: “Malattia dei bambini poveri e dei vecchi ricchi”, a significare che colpiva i pastorelli, nutriti a verdure e latticini che dunque sviluppavano una calcolosi ossalo- calcica, e vecchi crapuloni che si abbuffavano di cibi carnei formando calcoli di acido urico (i vecchi gottosi della Commedia dell’Arte!). Questa curiosità, per inciso, può farci riflettere sulla moderazione e sull’eccesso, cogitazione tutt’altro che inutile per chi si occupi di Esoterismo. Medèn agan, “nulla troppo” era il motto che ornava il tempio di Apollo a Delfo: poco praticato allora ed ormai praticamente desueto. Oggi sembra esser stato sostituito da “pan agan” tutto troppo! Torniamo ai nostri contadini; la loro dieta, “mediterranea”, prevedeva solo modeste quote di carne, per lo più conservata (salumi, prosciutti, salsicce, ecc.) e qualche pollo nelle feste maggiori. Il resto delle calorie era apportato da farinacei, legumi, verdure e frutta; oltre, naturalmente, al vino. Dove non vi fossero particolari carenze era una dieta equilibrata e sana. La carne, che in passato era un complemento dell’alimentazione prevalentemente vegetale, con le moderne tecniche di allevamento che consentono una produzione abbondantissima a prezzi molto bassi ha assunto un ruolo dominante. Pochi sanno che la moderna organizzazione della produzione industriale, la cosiddetta “catena di montaggio”, non nasce con la fabbrica del famoso “Modello T” della Ford, ma col Mattatoio di Chicago. Basta scorrere le pagine di Internet per scontrarsi con immagini terribili di crudeltà contro animali da macello, trattati con violenza gratuita e non necessaria, quasi con rabbia e aggressività brutale; mi sono chiesto: “È una rabbia contro la situazione di dover compiere un lavoro così tremendo ed osceno? È frustrazione? Cosa può indurre un essere umano a comportarsi così? E questi uomini (uomini?) possono dirsi o restare “normali”?”. “Saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines” (Ovidio). Salta agli occhi l’analogia coi guardiani dei Lager nazisti: persone “normali” che amano la moglie e i figli, che accarezzano affettuosamente i cani e poi, con un’incomprensibile schizofrenia, gasano, frustano, torturano esseri umani come loro, li spogliano, li feriscono, li degradano dopo aver separato le madri dai figli, le mogli dai mariti... È una barbarie disumana, che viene tenuta celata, perché ognuno di noi, dopo aver visto quelle immagini avrebbe seri problemi a nutrirsi ancora di carne. Vi risparmio i particolari: sappiate comunque che sono a dir poco orripilanti; quello che importa è che si sposta il problema del “Mangiar carne” dal “se” al “come”. Se mangiar carne: proteine nobili, elementi nutritivi essenziali, storia biologica degli esseri umani: ottimi motivi per nutrirsene. Quanto mangiar carne: certamente in misura minore di quanto, in media, non si faccia oggi nei Paesi più sviluppati. Per motivi igienici, per sostenibilità ambientale, ecc. Come mangiar carne: qui forse il discorso si fa più vicino ai nostri ideali e ai nostri metodi. Come mangiare, in generale e come mangiare la carne in particolare. La risposta è: religiosamente! Torniamo ai nostri indiani delle praterie, di cui abbiamo ampie testimonianze, preziose perché, riguardando popolazioni ferme all’età della pietra ci danno modo di posare lo sguardo anche sui nostri progenitori. Cacciatori nomadi su cui abbiamo ampia documentazione, i Lakota, i Sioux, i Cheyenne, ecc. si prestano egregiamente all’uopo. Quando era il momento di cacciare i bisonti, che migravano in mandrie enormi sulle sconfinate praterie, gli indiani invocavano il Totem del Bisonte, pregandolo affinché inviasse loro i suoi figli, animali di carne, per poterli cacciare e nutrirsene. Ne abbattevano solo il numero di capi necessari e di quelli utilizzavano tutto, senza gettare o sprecare nulla; era una sorta di simbiosi tra le due specie, e dopo la caccia essi ringraziavano religiosamente il Totem, che ancora una volta aveva loro consentito di sopravvivere. Come alleviamo, macelliamo e consumiamo noi? Nella stragrande maggioranza dei casi in maniera inaccettabile, vergognosa: e va sempre peggiorando. Perché quando si assume come principio fondamentale la logica del profitto, le cose non possono andare che così; si chiama “reificazione”, ed è il processo che rende gli uomini, gli animali, tutto assimilabile a “cose”, “oggetti”. Che siano ebrei, negri, animali o territori, con le dovute differenze, il processo è il medesimo, il profitto oscura ogni altra considerazione, l’umanità sparisce, la ragione si eclissa. A questo punto, vi va una bistecca? A me sì, ma non so fino a quando…

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:06