Il Cnel è deceduto, viva la Corporazione

La furia iconoclasta del giovane Governo, tesa ad eliminare l’enorme castello istituzionale cresciuto negli anni a schiacciare la società, rischia di non abolire né di ridurre. È il film già visto, di cui il tentativo tremontiano di eliminare l’Istituto per il commercio estero (Ice), risorto come Ita, è stato un episodio rappresentativo. Almeno un istituto, però, sembra destinato a sparire: il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel). Non c’è dubbio che tutte le istituzioni consulenziali dovrebbero andare rimosse. Non solo il Cnel, dunque, ma anche il Consiglio di Stato, consulente giuridico dello Stato a tutela della giustizia nell’amministrazione. Se l’attività di un’istituzione non è cogente, è inficiata in partenza.

La disattenzione che trascura la dipartita del Cnel, l’assenteismo alle sue riunioni (ammessa candidamente dai segretari sindacali), la poca considerazione storica del Parlamento che non ha neanche letto le sue 15 proposte di legge in cinquant’anni, l’incoscienza del suo presidente, Antonio Marzano, che dice di non conoscere nemmeno la propria retribuzione (213mila euro annui, oltre al vitalizio parlamentare), il silenzio di tutti sul dimezzamento del 2011 dei suoi consiglieri (da 121 a 64, pagati 1600 euro), fanno pensare che almeno questo ente sparirà. Sarà una tragedia solo per i 100 consulenti (pagati 2,2 milioni) e per i 54 centri studi che ne ricavavano altri 2 milioni. Sarà - mentre i dipendenti pubblici trovano un’altra collocazione - un’ulteriore stretta al vasto lavoro privato riferibile ai costi della politica. Non tutti i 20 milioni di costo del Cnel spariranno, ovviamente; ma almeno la metà sì, tra consulenze e altri rimborsi spese e viaggio (costo: 4 milioni) dei consiglieri.

Sopravvivranno ottimamente invece tanti altri centri, in quanto privati, come il Censis, che tanto male ha fatto con ricerche politicamente guidate. I sindacati, per dovere d’ufficio, hanno chiesto non la soppressione ma la riforma del Cnel. Anche perché la banca dati dei contratti di lavoro pubblici e privati, ora affidata al Cnel, non solo serve ma, nella logica degli open-data, verrà esponenzialmente accresciuta. La rituale difesa d’ufficio del Cnel ha fatto riferimento alle analoghe istituzioni esistenti a livello europeo (e in 75 altri Paesi dittatoriali e democratici), ma l’argomento si ritorce contro gli esempi di Tuac, erede del Piano Marshall o del Comitato economico e sociale europeo (Cese), che la Commissione finanzia ma che tratta come il due di picche.

Nel tempo il Cnel è stato snaturato della sua funzione originaria. Datori di lavoro e lavoratori sono stati sommersi dalle improbabili associazioni dei consumatori e del no-profit, strumenti ad usum delphini dei partiti. Il crescente e importante lavoro autonomo, come quello precario, non ci sono mai entrati. Il vertice di centrodestra è stato inattivo, lasciando il controllo ad un gruppo dirigente debenedettiano che ha rispettato le aspettative governative. Quando Monti voleva deprezzare il sistema tecnologico italiano, si arrivò a dire che la telefonia mobile (punta di diamante della leardership italiana nel broadband) non contava nulla. Anche la difesa del Cnel è dunque tracimata in reciproche accuse, nell’occasione impropria per attaccare il vertice dell’ente oggi di un fondatore di Forza Italia, ieri di un ex segretario Uil. Il centrodestra, come fa sempre quando viene attaccato uno dei suoi che non sia il leader maximo, ha taciuto. Lo stesso milieu di sinistra tecnocratica ha attaccato quegli istituti del lavoro che controllava dall’interno.

Il senso dell’eliminazione del Cnel è l’insignificanza che ha, per la sinistra, l’opinione delle rappresentanze del lavoro. Da vent’anni media e partiti di sinistra hanno attaccato il Cnel e sostenuto liberalizzazioni pauperizzanti. Il fatto è che malgrado la respirazione artificiale fornita da accademie, media e magistratura, l’estremismo sindacale, l’unico buono per il mondo tecnocratico, è morto e sepolto. Negli ultimi anni non ci sono state concertazioni e Palazzo Chigi ha chiesto alle parti sociali di comunicare via email. I contratti sono stati bloccati unilateralmente dallo stesso Stato, che non adegua i salari come non paga i fornitori. Contratti territoriali, settoriali e deroghe hanno spezzettato l’unità del livello nazionale, dove un terzo degli emolumenti non è contrattato.

Il primo atto del nuovo Governo ha aumentato di dieci volte la provvisorietà del lavoro; i giovani Pd (tra cui i giovani archeologi), che nelle belle sale del gruppo alla Camera avevano chiesto reddito minimo e stop alla precarietà, si sono presi dal coetaneo l’allungamento dei contratti a termine (da 1 a 3 anni); 6,5 anni, mettendoci i periodi formativi di prova (42 mesi). Ben serviti, hanno applaudito. Con la Cgil che, al limite del ridicolo, prima ha protestato e poi ha detto che “il piano è nostro”. Il Premier ha ritrovato quel regime monocorde tosco-emiliano, dove sindacato, Coop e dipendenti pubblici ingoiano tutto, ammansiti da una gita a vedere il film sul comunista Berlinguer dell’anticomunista Veltroni.

Il panorama descritto, purché il Pd vinca, è pura immaginazione. L’ultimo a trattare con i sindacati è stato Berlusconi e la disoccupazione era ai minimi storici. Tre Governi non eletti e ora è quasi ai massimi. Se poi la Cgil confederale (ma non tutte le sue categorie) non voleva parlare con il nemico politico è un altro paio di maniche. La cassa integrazione straordinaria, oggi invocata da tutti, l’ha inventata Sacconi e non Fassina. Il sindacato reale, nella maggioranza moderato, non è raccontato e non fa notizia perché rifiuta Lenin e Parvus. L’oscuramento sindacale (tranne i suoi estremisti) è lo stesso subito dai nazionalisti, liberali, federalisti, cattolici. Più della metà del Paese (e non si tratta di donne) fa fatica ad esprimere per carenza di luoghi, spazi e modalità. Per i media non conta che milioni di persone prendano decisioni in decine di migliaia di continue elezioni e referendum sui luoghi di lavoro proprio con “ordinamento interno democratico, libera scelta, approvazione dei soci di deliberazioni e bilanci” auspicati.

L’opinione delle persone, mai raccolte o ascoltate se non nei modi raffazzonati dei tavolini o dei gazebo, se non nelle campagne progrom lanciate dallo scandalismo politico, se non dalla coartazione elettorale, per politica e media non conta, non esiste, annoia. Eppure la crescita degli iscritti sindacali dipende proprio da questo; cioè che è rimasto solo questo luogo di massa a dare senso all’ideale liberale di libertà di riunione e di parola: quello sindacale (insieme a qualche ordine professionale, ma non tutti), malgrado i difetti macchinosi di una burocrazia privata. Bisogna intendersi sulle libertà e sul mercato. Se quello del lavoro è un mercato e non un carcere, esiste una legge naturale della domanda e dell’offerta. Com’è legittimo decidere di investire o no, lo è anche accettare certe condizioni di lavoro o meno. Il mercato del lavoro è concorrenziale proprio perché c’è il sindacato. Non meraviglia che chi vorrebbe il processo fatto solo dall’accusa, vorrebbe anche i contratti fatti solo da una parte.

Se il Cnel viene rimosso dipende anche dal sindacato, che spesso e volentieri non è stato onesto intellettualmente con se stesso. Confindustria e sindacati, reali espressioni di milioni di imprese e di lavoratori, di investimenti, competenze e soldi veri, fanno spallucce. Da un lato la politica può anche non riceverli e rifiutare, ed a ragione, l’antica concertazione. Dall’altro lato però deve rincorrerli, quando ha bisogno (cioè sempre) della loro collaborazione negli investimenti, nei territori, negli istituti della previdenza e dell’aiuto sociale. L’economia europea è soprattutto privata e dalla presenza privata (di capitale e lavoro) le relative associazioni trovano la loro forza. Proprio all’opposto di quelle definizioni di para-statalismo che oggi sono in voga. La politica tecnocratica europea come italiana ha bisogno di coartare volontà dell’elettorato e rappresentanza delle forze sociali. Queste ultime però, abolito il Cnel, saranno forti come prima. Ora, il Cnel questo mondo non lo rappresentava.

Nessuno vuole ammetterlo ma l’organo ausiliario ex art. 99 della Costituzione, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, ha mantenuto nell’ordinamento le corporazioni fasciste, cioè la rappresentanza delle categorie produttive secondo importanza numerica e qualitativa. Non a caso, un mese fa il compendio de “Il Messaggero”, che ha dato il via al supporto alla campagna antisindacale del Premier, incolpava proprio il sindacato confederale di commistioni con lo Stato, proibite dalla Costituzione, e quindi di continuismo con il solco del sindacalizzato regime fascista. E scriveva: “Il sindacato è un potere parastatale, bifido, partecipe della funzione legislativa ed esecutiva non rintracciabile nella Carta, ne contrasta specifici articoli, sovranità popolare e Governo. I sindacati determinano il costo del lavoro, cioè il principale incentivo alla disoccupazione”.

Certo, ad un euro l’ora si realizza la massima occupazione, quella sognata dall’Unione Europea, che non a caso Marine Le Pen chiama “Unione Sovietica Europea”. Nessuno ha reagito alla provocazione del quotidiano romano. Forse perché l’accusa, se è di corporazione, non è una colpa, anzi. Il Cnel, solo di lavoratori dipendenti ed autonomi e datori di lavoro avrebbe dovuto sostituire il Senato. Niente paura. In tempo di invocazioni di competenze, le corporazioni o categorie produttive sono un dato di fatto. Non le crea la legge, un giornale o una televisione, non le ucciderà neanche il giovane Presidente del Consiglio venuto proprio da quella che fu la capitale del sindacalista Dante Alighieri.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:16