Per non morire   di... burocrazia

I tagli alla spesa pubblica? Un mantra governativo (ripetuto, senza successo, da tutti i Governi che si sono succeduti da più di venti anni a questa parte!), da un lato, e una mitica chimera, dall’altro. Domanda: se la Pubblica amministrazione fosse la Fiat, come dovrebbe comportarsi il Marchionne pubblico di turno, dovendo ridurre drasticamente i costi di produzione, per stare sul mercato? Semplice: chiuderebbe tutte le attività produttive in perdita, perché non competitive e obsolete, e si alleggerirebbe della relativa manodopera in esubero.

La differenza tra pubblico e privato (a quando, presidente Renzi, una modifica costituzionale rivoluzionaria, che equipari lavoro pubblico e privato, sia nel sistema delle garanzie, che nei contratti di categoria?) sta nel fatto che lo Stato non è un libero imprenditore ed è costretto a reclutare i propri effettivi per concorso pubblico, aperto a tutti, con costi aggiuntivi faraonici, per far fronte a domande di lavoro che superano per migliaia di volte i posti effettivamente disponibili. Una follia, nella già grande follia, generata dal virus burocratico.

Inoltre, poiché lo Stato-datore di lavoro i soldi degli stipendi per i suoi impiegati li preleva dal grande calderone della fiscalità, le classi politiche italiane, succedutesi dal 1948 a oggi, non si sono fatte il minimo scrupolo di utilizzare senza ritegno, né criterio, le assunzioni nel pubblico impiego, per remunerare con ambitissimi posti (fissi) al sole le loro fameliche clientele. Fu così che la Pubblica amministrazione divenne, nel tempo, un ciclopico ammortizzatore sociale, in grado di drenare la crescente disoccupazione intellettuale del Mezzogiorno.

Sull’altro versante, l’impiego pubblico si è configurato come un contenitore di lusso, per una comoda sistemazione dei fedelissimi (vassalli e valvassori dei politici di turno) nelle posizioni dirigenziali e di vertice degli apparati dello Stato e del Parastato. Il mito del “posto fisso”, svincolato da qualunque logica di merito e produttività (attualmente, licenziare un impiegato pubblico è impossibile) è considerato oggi, con tutta obiettività, il massimo responsabile del degrado amministrativo e sociale, che caratterizza l’attuale burocrazia italiana, sempre più autoreferenziale, frammentata al suo interno in mille caste e protettorati, nonché in una miriade di sigle sindacali incontrollabili.

Nel gigantesco bosco di rovi impenetrabili, costituito da centinaia di migliaia tra norme primarie e secondarie, regolamenti, circolari amministrative, ordinanze di vario tenore e principi in deroga, si sono dissolte e lacerate le residue speranze di rinascita economica dell’Italia.

Esiste un’alternativa percorribile tra licenziare in massa i pubblici dipendenti (lo hanno fatto, dal 2008, Inghilterra, Grecia, Spagna e Irlanda) o, viceversa, aumentare la pressione fiscale esistente, per continuare a garantire loro uno stipendio, anche se non giustificato da necessità oggettive? Tenterò di dare una risposta sistemica, partendo dall’osservazione che il pubblico impiego è costituito da un soggetto collettivo privilegiato, che si configura come un “consumatore netto” della ricchezza nazionale, che grava su altri fattori produttivi (imprenditori, libere professioni, partite Iva). Questo, perché la Pubblica amministrazione non è configurabile come una sommatoria di mercati specializzati. Per molti il pubblico dipendente è un “mantenuto” dalla collettività e beneficia di un posto fisso, al contrario di tutte le altre categorie dell’impiego privato.

In particolare, il modello ottocentesco dell’organizzazione burocratica del nostro Paese (così com’è stata recepita in Costituzione) ha creato il Leviatano dello Stato-badante (o Stato-Provvidenza) per la copertura dei costi – attraverso la fiscalità generale – dei così detti “servizi pubblici essenziali”, primi fra tutti la sanità e la scuola pubbliche, svincolandoli del tutto dalla verifica del merito e della produttività di chi ci lavora.

Quindi l’unica soluzione, a mio avviso, è quella di individuare un modello perseguibile, che inverta radicalmente la prospettiva, realizzando le condizioni di mercato all’interno dei settori chiusi dei servizi pubblici essenziali, in cui l’utenza sia equiparabile, nelle sue condotte, al consumatore privato.

Prendendo in considerazione sanità e scuola, se ne indicano di seguito i principi riformatori. In primo luogo, occorre ribaltare la soggettività passiva dello “stipendiato”, in quella attiva di un soggetto produttore netto di una vera ricchezza misurabile, come quella prodotta dai liberi professionisti. Quindi, è necessario annullare ogni differenza, nella creazione di reddito, tra strutture organizzative autonome (ospedali, scuole) pubbliche e private.

L’idea, quindi, è quella di accedere ai vantaggi lavorativi (piena autonomia nelle decisioni gestionali e d’investimento) e fiscali che caratterizzano gli studi privati di professionisti associati, da parte di tutti coloro che, oggi, percepiscono uno stipendio pubblico, rendendo possibile e ragionevole, per tutti costoro, una consistente prospettiva di aumento del proprio reddito. È possibile raggiungere un simile risultato in tre fasi.

Con la prima, lo Stato concede in comodato d’uso gratuito, a beneficio degli operatori che vi lavorano, l’utilizzo delle strutture e dei complessi circondariali, in cui si svolgono le attività pubbliche considerate.

Il passaggio successivo è quello di creare, per ogni struttura autonoma, altrettante società di professionisti associati (medici, paramedici, amministrativi, per gli istituti sanitari; insegnanti, amministrativi, personale ausiliario, per quelli scolastici), il cui capitale sociale è interamente versato dallo Stato a titolo di liquidazione dei rapporti di lavoro pregressi. Le azioni sono equitativamente ripartite su tutti gli ex lavoratori pubblici, in rapporto al rispettivo tfr (trattamento di fine rapporto) capitalizzato, che torna, virtualmente, al soggetto avente diritto, in caso di mobilità o trasferimento volontario, per essere riversato in un’altra unità produttiva di sua scelta.

La terza fase consiste nel creare un Fondo nazionale per i servizi essenziali con la seguente missione: finanziare a tasso agevolato (inferiore al 2 per cento) sia i progetti di miglioria e di manutenzione delle strutture concesse in comodato, sia gli acquisti di beni e servizi; garantire la copertura assistenziale per gli indigenti (malati gravi e anziani con condizioni di reddito insufficienti, per quanto riguarda l’assistenza sanitaria o scolastica).

Al Fondo spetterà, poi, il compito fondamentale di stabilire gli standard delle prestazioni, soprattutto in materia sanitaria. Con provvedimento governativo, soggetto a revisione periodica, a ogni cittadino è erogato un “bonus” complessivo annuale, il cui ammontare è proporzionale allo scaglione di reddito di appartenenza, con l’aggiunta della consegna di una “smart-card” personalizzata, per il pagamento dei servizi pubblici indispensabili, da utilizzare, di volta in volta, per la copertura dei costi-standard delle prestazioni sanitarie e dell’iscrizione annuale dei propri figli a scuola.

Con questi strumenti, quindi, l’utenza genera un vero e proprio mercato di settore, e gli operatori dei diversi comparti interessati (scuola, sanità) si ripartiscono, a fine esercizio, gli utili conseguiti, in base alle quote azionarie possedute. Gli anticipi di cassa, per l’equivalente del pagamento degli stipendi mensili, sono eventualmente richiesti, a titolo di prestito, dai responsabili legali delle singole strutture al Fondo, che è tenuto a erogarli, in base alla richiesta pervenuta, a un tasso parimenti agevolato (non superiore all’1 per cento).

Il vantaggio rilevante di questa complessa operazione di riconversione dell’impiego pubblico, da consumatore a generatore netto di ricchezza, è rappresentato dai risparmi sistemici, conseguibili negli acquisti e nei consumi di beni e servizi alla produzione, e dal più stretto rapporto tra cittadino-utente e fattori della produzione. Insomma, suggerirei a Renzi di provare per credere, anziché twittare al vento.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:11