Renzi e “Io speriamo che me la cavo”

venerdì 5 settembre 2014


Marcello D’Orta, insegnante napoletano, pubblicò’ un libro nel 1990 dal titolo: “Io speriamo che me la cavo”: una selezione di temi svolti dai suoi allievi che, nella loro ingenuità e ignoranza giovanile, avevano comunque un qualcosa da trasmettere. Due esempi, tanto per accennare di che cosa si è trattato:

• “Ora io già lo so che tutti diranno che non è giusto, ma io invece dico che è giusto. Infatti io credo che gli uomini non sono tutti uguali, ci sono i belli, i brutti, gli alti, i bassi, gli intelligenti e i scemi. Così ci sono pure i popoli diversi. Per esempio, io ai tedeschi li schifo e li odio perché fanno scoppiare sempre la guerra, agli inglesi li schifo e li odio perché dicono che sono migliori di tutto il mondo, ai francesi li schifo e li odio perché fanno sempre la guerra del vino con noi. Ai negri io non li schifo e li odio perché non mi hanno fatto niente, però puzzano, e per questo mi fanno un po schifo. (da: È giusto, secondo te, disprezzare i negri, e quanti altri non sono come noi?)

• La fame nel mondo brulica come i vermi, come i lombrichi. Ci sono popoli ricchissimi, che non sanno neanche dove sta di casa la fame, ma c'è l'India, l'Africa e la Basilicata che lo sanno dove sta di casa, la fame! (da La fame nel mondo).

La rilettura di questa preziosa testimonianza, fatta qualche giorno fa in vacanza nello splendido mare di Calabria, è giunta proprio mentre, oltre all’attualità degli efferati delitti commessi dall’Isis in Iraq, il premier Renzi e il Ministro Alfano portavano all’attenzione pubblica, il primo il programma dei mille giorni e il secondo il successo guadagnato in Europa con “Frontex plus”. Tra l’altro Renzi, tra le tante, propone anche l’ennesima “riforma della scuola”, mentre Alfano non ha accennato minimamente agli ormai oltre 10.000 immigrati/rifugiati che arrivano settimanalmente nei nostri porti, con le conseguenti problematiche sull’ospitalità e sull’Integrazione. La stragrande maggioranza dei nuovi arrivi è di religione Musulmana. Il che lascia ampio margine ad alcune riflessioni.

Non a caso, proprio ieri mattina (3 settembre) Libero ha pubblicato un articolo di Michael Sfaradi: “Shalom7, svolta in Scandinava. La Norvegia ha superato addirittura i nazisti: gli islamici impongono la cacciata degli ebrei”.” L’articolo, in sintesi conclude: “Gli ebrei lasciano il Paese perché in Norvegia la forte presenza musulmana, con l'odio insito nei confronti degli infedeli, è riuscita nel giro di pochi anni a rendere impossibile la vita alle piccole comunità ebraiche.” … ”La Norvegia non sarà solo la prima nazione europea senza ebrei ma visto l'andamento potrebbe avere anche il primato dell'introduzione democratica della Sharia come legge dello Stato, sia dal punto di vista civile che penale. Si tratta però del primo tassello di un domino che in breve tempo coinvolgerà tutto il vecchio continente, i dati sono agghiaccianti. Dopo la Norvegia sono la Svezia e la Finlandia, infatti, le prossime candidate.”. Per completezza d’informazione cito che, in Gran Bretagna, dal novembre dell’anno scorso è in vigore, per le sole famiglie Musulmane, ai fini della “successione”, il dettame coranico secondo il quale alla donna spetta la metà di quanto ereditato dal maschio. Un principio che, seppur applicato alle sole comunità musulmane, è comunque in netto contrasto con la “dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite” del 1948. Dichiarazione che è alla base degli ordinamenti giuridici (Diritto Civile) della totalità delle nazioni dell’Occidente. La “penetrazione” della cultura islamica nel mondo occidentale è già realtà, dunque, e tutto questo va a interagire in quella più vasta dicotomia, sconosciuta per ora al Governo Renzi, dal nome “integrazione - educazione”.

Purtroppo, e introduco quindi la valenza dell’educazione scolastica in Italia, nella visione dell’insegnamento della "storia", ancora oggi gli interventi (anche spesso drammatici e disumani) dei popoli della sponda sud del Mediterraneo, vengono proposti come i “Mori”, i “Saraceni”, i “Mammalucchi”, gli “Ottomani”; al massimo sui nostri testi di storia medioevale potremo leggere degli Aghlabidi (invasione e “sottomissione” della Sicilia islamizzata dal 840 al 1100). Orbene, nella letteratura "araba" (cioè di tutti i paesi del Medio Oriente e nord Africa, e in Oriente, dalla Turchia sino all’Indonesia) si legge solo ed esclusivamente dell'Islam e dei suoi Califfi. Questi ultimi che, considerati tali anche nel periodo "dell'impero Ottomano" (quindi sino al dopo 1^ Guerra Mondiale), hanno caratterizzato la tipicità culturale dei periodi in cui hanno Governato. Si parla di periodo Irakeno, come Omanita, come Andaluso (si, ci sono stati anche quattro Califfi Andalusi, nel periodo in cui nella maggior parte della Spagna era in uso l'Arabo!). Questo per dire che, anche in funzione dell'attualità del termine "Califfato", sarebbe opportuno aprirsi nell'analisi che dovrebbe essere fatta, soprattutto dal punto di vista storico, di questa cultura "altra". Una presa di conoscenza della civiltà Islamica, che nel suo insieme è in grado di spiegare le “diversità” non solo nei confronti della cultura Occidentale, ma addirittura all’interno stesso dell’Islam tra “conservatori” e “modernisti”. L’Islam nasce, ancor prima delle ragioni religiose, per motivi a carattere antropologico e culturale, in una dimensione di un “ideale storico concreto”: la prima comunità di credenti, raggruppatisi a Medina (622 d.C.), che aderì a quello che gli venne proposto come messaggio di Dio e si uniformò all’esempio del Suo inviato, Maometto (per molti esempio prioritario rispetto allo stessa parola di Dio - Corano!), dette vita alla prima forma di civiltà islamica. Da quel giorno (1° giorno del Al Hegra – Egira, calendario Arabo), il compito di “ogni” musulmano è quello di riprodurre il “modello” di vita proposto allora in modo sostanzialmente equivalente, poiché ogni modifica o variante significherebbe implicitamente un’ammissione di incompletezza e di imperfezione nel prototipo della Umma (l’insieme della società islamica), così come voluto dallo stesso Creatore! La civiltà arabo Musulmana è dunque caratterizzata da un particolare rapporto spazio temporale, che si manifesta soprattutto nel valore normativo che la tradizione riveste ancora oggi in molti settori delle scienze umane. Questa attitudine culturale tendenzialmente intesa a “perpetuare” anziché a “innovare”, non deve però far credere in stereotipi inamovibili e univoci, bensì come ostativi al cambiamento che, per contro, con il passare dei secoli e l’influenza di altre culture è comunque subentrato in molti paesi Arabi. Per contro, va rilevato che l’atteggiamento di fondo che contraddistingue l’evoluzione delle società moderne occidentali, è diametralmente all’opposto dell’approccio tendenzialmente conservatore dei paesi dell’Islam. In particolare, se dal Rinascimento in poi, per la società occidentale l’individuo ha occupato una posizione di assoluta centralità, nel mondo Islamico lo spirito di gruppo, inteso come “Identità collettiva”, non solo ha assunto da sempre un valore prioritario, ma addirittura è diventato il motivo di fondo dell’arabizzazione cui stiamo assistendo in tutti i paesi del nord Africa e medio Oriente, post Rivoluzione 2011.

A tal proposito, vi prego fare attenzione sulla "scritta" che emerge in tutta la sua interezza, nelle bandiere (simbolo di un unico popolo) del SISI, su sfondo nero, (Salafiti che ambiscono ad unico Califfato) e dell'Arabia Saudita, su sfondo verde. E’ quella della Shahada, ovvero la dichiarazione di fede Islamica: "Ašhadu an la ilàha illa Allàh - wa ašhadu anna Muhammad Rasùl Allàh" . Che significa: "Testimonio che non c'è altra divinità se non Dio (Allàh) e testimonio che Muhammad è il suo Messaggero". E’ una chiara dimostrazione della "doppiezza" (non sempre evidente, anzi mai riconosciuta soprattutto dall'Arabia Saudita) del Mondo Islamico. Ambedue predicano un Islam (Stato e Religione si identificano in una sola unità) che detta leggi sociali derivare da precetti coranici e da comportamenti del Profeta. Spesso, questo “modo di vivere” dettato all’interno dell’Islam, cozza violentemente con la nostra cultura (di radici cristiane). Questo è il motivo per cui ancora oggi agli occhi dei Musulmani, l’occidente è visto come un popolo di “infedeli”. Ma ben diverso però è il significato che assume nell’ambito stesso dell’Islam la parola Jihad. Alla traduzione letterale della Jihad si danno differenti interpretazioni, di cui la più errata è quella di “Guerra Santa”. In effetti, l’espressione fu formulata da Papa Giovanni VIII, e seguenti, nel Medioevo, proprio per esaltare la lotta contro i musulmani nelle Crociate. Mentre dal Corano, che cita la Jihad solo 4 volte (con altri riferimenti indiretti per un totale di 75 volte), se ne deduce un significato di “Sforzo” sulla “strada di Dio”. Quindi jihad letteralmente significa sforzarsi e impegnarsi duramente per l’affermazione del Corano. Nella terminologia islamica esso conserva il significato letterale in due differenti dimensioni, che vengono definite come “grande o jihad maggiore” e “piccolo o jihad minore”. Il jihad maggiore è conosciuto come il combattimento spirituale (interiore), una lotta tra due poteri insiti nell’uomo: l'anima ed il corpo. Questo conflitto spirituale è un perdurante jihad all'interno di ogni musulmano. Il digiuno nel mese di Ramadhan è un esempio dell'allenamento annuale per questo jihad maggiore.

Il jihad minore è la lotta armata, che a sua volta si suddivide in: aggressione e difesa. Nell’interpretazione delle varie Sure coraniche che parlano o incitano alla Jihad minore, la “difesa” è un diritto dovere del Musulmano che raggiunge anche forme giustificate di violenza estrema. Sulla “aggressione”, ahimè nascono le differenze, se non addirittura le “devianze” Jihadiste. Per semplificare, mi basti citare quanto accaduto dal 1700 in poi. L’Arabia Saudita, terra Santa per l’intero Islam (il Re dell’A.S. è anche chiamato il Principe delle due Moschee), dopo le aperture alle culture locali attuate dai Turchi per più di settecento anni di dominio, decise di diffondere un “ritorno” all’ortodossia che allora fu studiato e professato da Mohammed Ibn Al Wahab (1703-1792; fondatore del "wahabismo"). Il ritorno alla tradizione (Salafismo: amici del Profeta – questi infatti sono stati i primi tre califfi) s’incentra sui primi califfati dell’Islam. In particolare il primo (634 – 652), durante il quale si è attuata la massima espansione (conquista e sottomissione) del credo musulmano su tutte le popolazioni, la maggior parte nomadi, dell’area Mediorientale. L'ultimo movimento salafita di rilievo, è stato quello di Hassan al Banna che ha fondato nel 1928 l'Associazione dei Fratelli Musulmani e che introdusse l'utilizzo dell'Islam come strumento politico per la guida delle masse.

Poi negli anni Cinquanta il fronte del Salafismo si allargò alla lotta armata contro i capi arabi "empi" ed il ripristino di uno Stato islamico (Nasser). Sino ad arrivare ai giorni d’oggi dove il Wahabismo Salafita è divenuto il riferimento ideologico di tutti i movimenti terroristici, da al Qaeda, ad al Noura, ai Salafiti tunisini, libici, algerini, nigeriani, somali ecc. I movimenti salafiti di oggi (Jihadisti e terroristi islamici) perseguono, nella sostanza, soprattutto nel mondo islamico l’istaurazione di un Califfato per un’interpretazione severa del Corano e della Sunna, combattono le tradizioni popolari e/o consuetudini religiose che non hanno - a loro modo di vedere - riscontro negli insegnamenti di Maometto, ma soprattutto affermano l’unicità di Dio, il monoteismo assoluto ("al ahwad") e l’essenzialità dell’ultimo profeta. In definitiva, se da una parte le matrici riformiste dell’Arabia Saudita e quella modernista del Qatar e degli emirati Arabi/Oman ecc., hanno prodotto e finanziato un proselitismo inteso ad affermare il diffondersi del credo musulmano in senso pacifico, i cui effetti li troviamo in Europa, a cominciare dai Balcani e di cui l’ultimo esempio sono la Norvegia e i Paesi del nord, l’evoluzione, in negativo, del Salafismo ha generato (purtroppo con le finanze degli stessi stati Arabi riformisti!) un approccio fondamentalista e radicale.

Vi è stata poi un’ulteriore evoluzione di questa corrente dottrinale che è diventata elemento giustificativo di sovversione (contro gli apostati, così come contro i cosiddetti regimi empi) e, in sequenza, del terrorismo. Nel nome di questa impostazione radicale sono stati perpetrati attentati, uccisioni, colpi di Stato, distruzioni, vendette attraverso fatwa e proclami. Inoltre, e per finire con un richiamo all’odio cui ha accennato il nostro giovane alunno napoletano, nel comportamento dei Jihadisti Isis, come nigeriani e altri, esiste un sentimento di fondo a noi (cultura occidentale) sconosciuto: l’odio. I recenti avvenimenti dell’Isis, infatti, hanno dimostrano la capacità di mettere in scena un crudeltà disumana e non più concepibile per la nostra cultura. Ma la stessa crudeltà è di per sé un messaggio. La glorificazione di odio trova un vasto pubblico soprattutto nel mondo musulmano, in quanto agisce come elemento identificativo di una certa identità: un qualcosa che appartiene a un “gruppo” motivato dalla stessa ideologia di base. Ad esempio, l'odio nei confronti dei musulmani Yazidi o Sufi in Iraq da parte dei jihadisti ISIS o, addirittura, l'odio per gli sciiti da parte dei sunniti e viceversa (risale alla battaglia del 674 a Karbala – Iraq). Questo odio è del tipo aggressione insondabile, che ha portato a crudeltà inimmaginabili. La crudeltà, in definitiva, implica il godimento sadico della sofferenza degli altri. Per realizzarlo, si ha bisogno che il soggetto sadico immagini possa far godere una terza entità attraverso questa sofferenza.

Quella che in psicoanalisi si riferisce alterità esterna per gli esseri umani. È Dio nel contesto religioso! I Jihadisti alimentano la loro fantasia al solo pensiero di far godere di Dio con le loro azioni. Ciò include la rappresentazione di un Dio oscuro e devastante che è propria del mondo salafita, ma che, ahimè temo, esista allo stato latente in qualsiasi musulmano sunnita. Ecco, quindi, che la parola “integrazione”, soprattutto per quanto sta accadendo con l’aumento dei flussi migratori verso l’Ue, non potrà in futuro essere scissa dalla componente educativa e formativa della nostra gioventù. Sarà forse il caso di riesaminare anche qual'è il retaggio culturale che ci appartiene veramente e a cui dovremmo tenere particolarmente, soprattutto in periodi di flussi migratori da "diecimila" musulmani alla settimana? Si, l'integrazione è sicuramente un argomento nobile che interesserà il nostro più immediato futuro, ma il Governo Renzi farebbe bene a interrogarsi su quali siano gli obiettivi reali che vogliamo dare al processo di sviluppo della "conoscenza" per la nostra Italia? Se è vero, che nel periodo Rinascimentale, forse il periodo più gratificante per la cultura propriamente italiana, per la prima volta nella storia del nostro popolo, l'uomo e le sue capacità furono messe al centro dello sviluppo della vita stessa della nazione (in tutte le sue manifestazioni), sarebbe anche giusto, oggigiorno, dove "la conoscenza" ha assunto una ben diversa realtà, che ci si interrogasse prioritariamente su quale modello educativo debba svilupparsi la nuova dimensione.

Una cultura “altra”, tipicamente italiana, immersa in una realtà internazionale, Europea e Mediterranea che è tutta da scoprire e da ridefinire sulla base di una “nuova conoscenza” che, finalmente, esca dai canoni miopi tradizionali e torni alla valorizzazione dell’uomo in tutte le sue “differenze” e all’apertura verso culture “altre”, proprio perché la “conoscenza” è parte essenziale del “dialogo interculturale”, per una più creativa difesa del nostro “io” collettivo italiano e europeo.


di Fabio Ghia