L’attualità politica di Croce e Silone

Pubblichiamo in due puntate l'intervento di Angiolo Bandinelli al convegno "Oltre Salerno" - Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica.

Ringrazio innanzitutto per essere stato invitato a presentare una relazione al convegno su Ignazio Silone e Benedetto Croce.

La ragione del convegno non può essere certo il fatto, occasionale, che sia Croce che Silone fossero abruzzesi. Né d'altra parte penso che si voglia fare delle due figure - per giustificare questo nostro incontro - i testimoni paralleli di una identica paradigmatica situazione o condizione umana o culturale... Silone e Croce non hanno molti punti in comune, appartengono a sfere diverse, anche se non lontane.

Non ho alcuna specifica competenza, non c'è dunque una ragione diretta perché io fossi chiamato a questo compito se non perché, per ragioni anagrafiche, un po' dell'atmosfera dei tempi in cui queste personalità vissero mi è rimasta nella memoria e - direi - nelle narici. Cercherò quindi di trasmettere un po' di quelle antiche sensazioni e riflessioni, per utilità di quanti non le provarono. Perché qui forse si cela la ragion sufficiente del convegno. Di una cosa sono infatti certo: è difficile, per quelli che non hanno, appunto, la mia età, immaginare cosa sia stata l'Europa nella quale vissero e operarono Silone e Croce. Era l'Europa degli anni Trenta, l'Europa forse più brutta, più negativa che si possa immaginare. Era l'Europa dominata dalle grandi dittature del XX secolo: da quella fascista, che ha dato il suo nome a tutte le altre, anche quelle più lontane e diverse - penso alla dittatura franchista o a quella polacca o ungherese, mere reazioni di stampo militaresco - fino a quella nazista o alla comunista.

Oggi ci liberiamo dei fantasmi di quel passato etichettando quei fenomeni come "dittature", "fascismi", ecc. Pensiamo sia sufficiente la nostra cumulativa e scontata condanna. Ma quelle dittature (il fascismo e il comunismo, sicuramente) incarnarono tentativi serissimi per la creazione di un homo novus, un uomo nuovo proiettato nell'avvenire con tutta la sua complessità etica, storica e politica. E qui scopriamo il qualcosa che unisce Silone e Croce.

Al tremendo progetto politico inscenato da quelle dittature diede mano una buona fetta dell'intellettualità del tempo. Oggi il termine intellettuale viene unanimemente esecrato. Non so se sia bene o male la sua scomparsa però io, per dire, sento la mancanza - oggi - di una figura come Sciascia - che però mai rivedicò per sé, credo, tale qualifica. Ma, a quell'epoca, la figura dell'intellettuale era centrale, sul palcoscenico (almeno sul palcoscenico...) della vita pubblica.

Basti tornare al Congresso internazionale "Per la difesa della cultura" contro la barbarie totalitaria nazista e fascista, svoltosi nel giugno del 1935 a Parigi - promosso da Ilyia Ehrenburg, ma avendo come riferimento il Comintern e come regista Stalin - che vide la partecipazione attiva di grandi intellettuali europei delle più varie tendenze politiche. L’adunata parigina aveva un obiettivo politico contingente ed urgente: rendere appetibile alla società civile europea occidentale la svolta che aveva spinto Stalin a liquidare la teoria del "socialfascismo" a favore della strategia del "fronte popolare", cioè di quell'alleanza tra proletariato e borghesia "progressista" che aveva favorito, appena un mese prima, il patto di mutua assistenza tra Mosca e Parigi.

Al convegno parigino potevano (e dovevano) essere denunciati gli orrori di ogni regime politico, salvo quelli perpetrati dalla Russia comunista: l’Unione Sovietica era il "baluardo della vera cultura", e di conseguenza ogni intellettuale onesto aveva il dovere di "difenderla" da ogni critica. La tesi fu portata avanti non solo dai funzionari del Pcus convocati a Parigi ma anche da noti intellettuali: Brecht, Nizan, Aragon, Barbusse, persino Gide. Reagirono Bendà, Musil, Huxley, ma soprattutto Gaetano Salvemini. Lo storico italiano articolò la sua relazione sulla differenza radicale tra società borghesi - aperte al "soffio della libertà" - e Stati totalitari, tutti liberticidi: poca differenza esisteva tra bolscevismo, fascismo e nazismo e nessuno poteva sentirsi in diritto di "protestare contro la Gestapo e l’Ovra di Mussolini" dimenticando che "nella Russia sovietica vi è la Siberia" o ignorando che esistevano, sì, "proscritti tedeschi, italiani" ma anche più numerosi "proscritti russi".

Ambrogio Donini, replicandogli, accusò Salvemini di aver voluto dividere l’unità del fronte antifascista. Sempre Donini sostenne poi, sull'organo ufficiale del partito comunista, che il "Prof. Salvemini ha aperto una breccia, attraverso la quale potranno passare il gruppetto di provocatori trotzkisti, che trovano la loro unica ragion d’essere nella lotta contro i comunisti, i costruttori del socialismo e l’avanguardia rivoluzionaria del proletariato". Ho ricordato questo episodio della politica e della cultura negli anni trenta per mettere un po' a fuoco anche i nostri due personaggi. Silone e Croce vissero dunque in un contesto storico-politico nel quale la cultura svolgeva un ruolo forte, quanto negativo, nella lotta contro la libertà, il liberalismo e la democrazia. Se non nasceva qui, qui sviluppava la sua devastante potenza l'intellettuale europeo del XX secolo. Al congresso partecipò polemicamente anche quel Julien Bendà cui dobbiamo un testo capitale, "La trahison des clercs", che ebbe l'onore di venir citato da Croce in nota a uno dei suoi testi (Croce detestava le note, l'eccezione nei confronti di Benda era quindi una sorta di dichiarazione politica).

Certo, ci furono intellettuali che lottarono contro il nazismo e il fascismo, ma non tutti riuscirono a mantenere le debite distanze dal comunismo: e, ancora nell'immediato dopoguerra, furono moltissimi quelli che si allontanarono dalle loro posizioni - per esempio il crocianesimo - per passare armi e bagagli sotto le bandiere del Pci, nella sua fresca edizione togliattian/gramsciana. I nostri due personaggi, attraverso percorsi del tutto differenti, seguirono invece la lezione salveminiana e furono insieme antifascisti, antinazisti e anticomunisti: cioè, in una parola, antitotalitari.

Nella loro diversità, i due percorsi sono affascinanti. Il figlio del piccolo proprietario contadino ed ex-emigrante in Brasile, Ignazio Silone, fin da giovanissimo sentì suoi vicini, sodali e fratelli i cafoni della sua terra, e su questa vicinanza e fratellanza costruì il suo percorso, insieme umano, civile e politico; l'intellettuale di status benestante, Benedetto Croce, si nutrì invece fin dalla sua gioventù - con grande familiarità - del migliore, più alto pensiero del tempo, italiano ed europeo. Tutti e due però elaborarono tesi (se non una vera e propria dottrina) della libertà che si contrappose con uguale cristallina chiarezza al fascismo ma anche al comunismo. Il risultato fu, per l'uno come per l'altro, un forte ed acre isolamento, presso i loro contemporanei, e dopo.

Silone era nato a Pescina negli Abruzzi, il paese - per inciso - dove era nato anche il cardinal Mazzarino. Ma Silone veniva da povera famiglia e cominciò presto a occuparsi di politica perché nella politica, e nel partito comunista del tempo, pensava di poter trovare una via per la liberazione dei suoi amati cafoni. Del Pci Silone salì ai vertici internazionali, conobbe quasi tutti i grandi dirigenti del Comintern di allora, ebbe anche modo di incontrare, assieme a Togliatti, Stalin. Ma presto, tra il 1927 e il 1930 matura una profonda delusione per i metodi di gestione del movimento comunista mondiale, dominato dal terrorismo della macchina staliniana, che in quegli anni veniva distruggendo i suoi oppositori interni, dal Buckharin (cui allora Togliatti faceva riferimento), a Trotzsky. Fu un massacro anche fisico, di cui Silone fu sgomento spettatore. Così, Silone decide di abbandonare il partito e la politica attiva. Comincia a scrivere: nasce "Fontamara", il suo capolavoro tradotto in ventisei lingue, che gli dà fama mondiale. Il mondo di Fontamara - come poi sarà il mondo dei successivi romanzi - è il mondo dei suoi amati cafoni. La figura del cafone, del contadino abruzzese, è centrale nell'opera di Silone, diventa paradigmatica di una visione del mondo. Silone in questo è, come Primo Levi, uno scrittore monomaniaco o monocorde, per lui come per Levi c'è una sola chiave per interpretare tutto l'insieme dei fatti del mondo. Il cafone di "Fontamara" è lo stesso soggetto delle lotte agrarie contro il latifondo condotte sotto le bandiere rosse del Pci, che erano, allora, le bandiere della libertà dall'asservimento dell'uomo da parte dell'uomo. Ma Silone non assoggetta il suo cafone alla macchina e alle ideologie del partito. Il protagonista di "Pane e vino" (1938) - va bene, questa volta è un "intellettuale", esiliato politico comunista - elabora una interiore conversione di fronte ad un mondo che sente ostile. E l'opera costituisce una anticipazione di quella "riscoperta dell'eredità cristiana" cui Silone si dedicò nel dopoguerra.

Si capisce l'ostilità della cultura "ufficiale" del dopoguerra, appunto, nei confronti di questo scrittore: la "questione religiosa" era stata affidata al Pci dell'approvazione dell'Articolo 7 della Costituzione e del successivo "compromesso storico". A Silone, quegli intellettuali preferirono sempre - paradossalmente - il Camus (che pure aveva recensito favorevolmente "Pane e Vino") ideatore di quell'inoffensivo ma affascinante mito del Prometeo, personificazione di un individualismo abbastanza narcisistico, lontano le mille miglia dalla riflessione dolorosa sul mistero della storia cristiana in Italia e nel mondo.

(fine prima parte)

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:21