Severi con gli altri,   “severini” con gli amici

Vorremmo sapere, una volta per tutte ed in maniera inequivocabile, in quali casi «le sentenze si rispettano», quando «le dimissioni non possono essere rimandate», in quali casi «chi amministra deve essere pulito» e, soprattutto «chi è stato condannato deve dimettersi».

Perché, altrimenti, ci sembra di vivere in un mondo senza regole ma, soprattutto, senza certezze. Non è possibile, in altri termini, ammettere che c’è chi talvolta sia severo nei giudizi, e poi lo sia meno quando le medesime situazioni riguardano propri ‘amici’. Se severi si deve essere, bisogna esserlo sempre e nella medesima misura. Altrimenti, da severi, si corre il rischio di divenire “severini” (o garantisti d’accatto dell’ultima ora, se più piace) e questo non è bello. Altrimenti si rischia anche di finire nelle grinfie del Fatto Quotidiano che plaude quei giudici che condannano i soggetti non graditi alla testata diretta da Padellaro che mette poi all’indice quei togati che ‘osano’ emettere sentenze contro gli “amici degli amici”.

Le sentenze non si commentano almeno fino a quando le stesse non riguardano certi paladini della moralizzazione contro il malaffare perché, allora, dovranno essere i giudici che hanno emesso la sentenza di condanna a «guardarsi allo specchio e provando vergogna» dimettersi dal loro incarico. D’altronde, in certi ambienti, funziona così: bravi i togati quando condannano gli avversari, insipienti quando si permettono di emettere sentenze contro certi paladini che si dimostrano, come detto, severi con gli altri, un po’ meno (appunto “severini”) con se stessi e/o con chi li circonda; tanto da spingerli anche a pronunciare frasi del tipo «Siamo di fronte a uno Stato profondamente corrotto» quando le sorti giudiziarie non sono a loro favore.

Sarebbe del resto sufficiente leggere le 983 pagine (indice compreso) del libro “Il caso Genchi. Storia di un uomo in balia dello Stato” (Aliberti editore, prefazione Marco Travaglio) per capire a che cosa è servita l’acquisizione di certi tabulati di traffico telefonico e quanto determinate condanne sarebbero più che comprensibili: le motivazioni, poi, apparirebbero quasi superflue.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:11