Università competitiva   per il mercato globale

L’università pubblica italiana, lo sanno anche i sassi, non funziona per i nostri ragazzi ma è in funzione di chi ci insegna e la amministra, per lo stipendio pubblico cioè dei docenti e del personale amministrativo. La nostra università pubblica è diventata un nugolo che si contraddistingue per baronato, autoreferenzialità, pessima amministrazione delle risorse, clientelismo, ruberie varie, cioè mali incancreniti nel tempo e figli della errata interpretazione di un diritto allo studio con il risultato di averla imbrigliata in un gorgo di burocratizzazione e di totale inefficienza.

Il sistema universitario pubblico produce ogni anno in Italia un numero di laureati molto inferiore rispetto alla media europea per il drammatico calo delle iscrizioni e per l’aumento degli abbandoni. Solo negli ultimi dieci anni ci sono stati ben quarantamila iscritti in meno. La maggior parte dei nostri laureati, alla fine degli studi nelle università pubbliche, non ha competenze in grado di soddisfare le richieste del mercato del lavoro, e soffre drammaticamente la concorrenza non solo dei colleghi anglosassoni ed europei ma anche di quelli dei Paesi emergenti, innanzitutto di India e Cina.

Se l’università italiana vuole sopravvivere alle nuove sfide dell’odierna realtà economica c’è bisogno di un profondo cambiamento. Un sistema in grado di funzionare per i giovani italiani non può prescindere da una costante e adeguata iniezione di risorse finanziarie a sostegno della ricerca e da un’organizzazione che privilegi il merito e non lasci spazio a demerito e agli sprechi. Lo Stato italiano ha dimostrato di non essere in grado, da solo, di garantire tutto ciò. L’università deve quindi aprirsi alle imprese, deve anzi diventare essa stessa impresa, finanziata e amministrata in ragione di criteri di competitività e innovazione in modo da non temere il dinamismo del mercato globalizzato ma, al contrario, trarre vantaggio dallo stesso.

Liberare gli atenei pubblici dalla gestione monopolistica dello Stato e garantire loro vera autonomia economica e gestionale, è questa la via maestra per risollevare le sorti del sistema pubblico universitario dell’Italia. Solo così l’università potrà tornare ad essere il luogo di valorizzazione della creatività e dello spirito imprenditoriale verso cui devono indirizzarsi i giovani e, in un futuro vicino, una delle poche cose che potranno spendere nel mondo globalizzato. Orientare l’università pubblica italiana al liberalismo e al liberismo, cancellare l’idea malsana che lo Stato debba essere la magna mater che accudisce ciascuno, riuscendo così a fare sopravvivere il godimento dei diritti fondamentali.

Per sostenere un apparato che possa da solo permettere ai cittadini il reale godimento di tali diritti, lo Stato dovrebbe avere abbondanti risorse da investire e mettersi così nella condizione di offrire un servizio efficiente in cambio delle tasse chieste ai cittadini. Lo Stato italiano, però, ha sempre più scarse risorse, le spende male e aumenta la tassazione dei propri cittadini non potendo assicurare loro né lavoro né tantomeno servizi. L’emblema di questa realtà è l’università pubblica incapace di formare giovani in grado di esaudire le richieste del nuovo mercato del lavoro globalizzato.

La cura è semplice e lineare: occorre che l’università si apra alle imprese, anzi, diventi essa stessa impresa, finanziata e amministrata autonomamente, come un’azienda libera dalla longa manus dello Stato. Un’università cioè capace di reperire dai privati risorse per la ricerca (da promuovere e valorizzare in chiave eminentemente economica) e di selezionare i docenti migliori a livello internazionale, riuscendo in tal modo ad essere competitiva a livello globale. Solo un’università alla quale sia garantita reale e completa autonomia può seguire l’ottica produttiva del sapere, contro l’ottica del sapere fine a se stesso.

La soluzione per spingere le università pubbliche ad aprirsi al mercato globale è togliere il valore legale del titolo di studio, cosa che costringerà gli atenei a diventare davvero autonomi e a chiamare chi vorranno senza concorsi accettandone le conseguenze. Aprire l’università pubblica ai contributi privati e darle un’organizzazione societaria. Se andranno male non riceveranno più finanziamenti statali che verranno erogati sino a scemare del tutto nell’arco di una quindicina di anni.

Si tratta cioè di rendere autonome le università pubbliche orientandole, più che sui docenti e sul personale amministrativo, verso il lavoro futuro dei propri studenti. Presto questi stileranno essi stessi una classifica delle più meritevoli e migliori per l’inserimento nel mondo del lavoro. Bisogna avere coraggio nel cambiamento, rimanendo fermi, l’università pubblica italiana annega insieme a ogni suo dipendente, frequentatore o fruitore.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:15