Renzi e la svolta   “mitterrandiana”

Questi sono i giorni della “Leopolda”. I capannoni della vecchia stazione fiorentina sono stati trasformati nello showroom della nuova ditta del Partito Democratico a guida renziana. In contemporanea, a Roma, la Cgil prova a battere un colpo chiamando a raccolta salariati, pensionati e politici della sinistra ideologica a rischio di perdita del posto di lavoro. Va in scena lo psicodramma di un’area politica che sembra spezzarsi in due. Da una parte il nuovo che vira a destra per andare incontro alla modernità, dall’altra il vecchio che si barrica sotto le bandiere di un bizzarro conservatorismo veterosocialista.

In questa surreale messinscena a uso mediatico della destra non si hanno notizie. Ciò che potrebbe spiegarne il silenzio è che la sua classe dirigente stia alla finestra a guardare sperando che lo strappo fra le due anime della sinistra si consumi e che il vascello renziano prenda il largo facendo rotta verso le sponde del moderatismo politico. Peccato, però, che le cose non stiano così. Se il centrodestra sta puntando davvero sulla conversione renziana verso il centro, sappia che non potrebbe commettere errore più grande. Pensare che il riposizionamento strategico di Matteo Renzi preluda alla fine della sinistra in Italia è un colossale abbaglio.

Quello che sta accadendo lo si è già visto in giro per l’Europa. Per essere più precisi la ristrutturazione avviata dal giovane leader fiorentino ha molti punti in comune con ciò che è accaduto circa trent’anni orsono alla sinistra d’oltralpe. Nei primi anni ’80, in Francia, la borghesia finanziaria, che aveva rotto l’alleanza con i ceti medi tradizionali in vista delle sfida dell’internazionalizzazione dei mercati, era in cerca di nuove alleanze per ricostituire il suo blocco egemonico. La sinistra socialista di François Mitterrand si rese disponibile al compromesso. Il progetto neosocialdemocratico, sperimentato nel contesto francese, fondava sul patto che la sinistra di governo avrebbe “gestito lealmente il capitalismo”.

Per farlo ha cancellato, in meno di dieci anni, tutte le conquiste raggiunte, mediante le lotte sindacali, nel periodo fordista. Cosa che la destra non avrebbe mai potuto fare. Di fatto, il partito socialista sostituiva la destra nelle scelte economiche e sociali con lo slogan “non esiste altra politica possibile”, senza peraltro identificarsi con essa. L’idea era quella di una visione modernista e progressista dello sviluppo capitalistico facilitato dal “consenso passivo”, come lo avrebbe definito Antonio Gramsci, delle classi lavoratrici.

Il prezzo dell’ascesa al potere del nuovo blocco egemonico l’hanno pagato i ceti medi tradizionali. Contadini, commercianti, artigiani, lavoratori autonomi, piccoli imprenditori e parte degli apparati professionali non legati alla pubblica amministrazione. Ora, se analizziamo le mosse di governo del giovane Renzi in questa ottica, comprendiamo molte più cose. Comprendiamo, ad esempio, l’omaggio fatto alla lungimiranza di un capitalista globale qual è Marchionne. Capiamo del perché Renzi non abbia alcuna voglia di assumere provvedimenti a difesa delle produzioni nazionali che rischiano di scomparire per effetto della trasmigrazione capitalistica verso luoghi di produzione più profittevoli.

Comprendiamo anche il comportamento di sfida assunto nei confronti delle rappresentanze sindacali. E ci è più chiaro il progetto di questa neosocialdemocrazia di fare macelleria sociale – pessima espressione ma efficace – a spese dei ceti medi tradizionali. Renzi sta godendosi lo spettacolo del massacro del lavoro autonomo e della micro e piccola imprenditoria sentendosi le spalle coperte dal patto strategico stipulato con il grande capitalismo finanziario. Il socialismo mitterrandiano di Renzi è più liberista e mercatista di quanto si immagini. Forse è anche per questo che piace tanto all’establishment che governa la Ue.

La destra deve fare molta attenzione. Con l’erosione costante della sua base sociale, che provoca il prosciugamento di una parte significativa del serbatoio elettorale, c’è la concreta possibilità che la fase renziana, come quella socialista in Francia, duri più di un decennio. Se così dovesse essere ci si prepari allora a una lunga traversata del deserto. Recuperare i ceti medi tradizionali, prima che finiscano per radicalizzarsi, dovrebbe essere il primo obiettivo per una forza di destra. Il timore invece è che ci si continui a baloccare sostenendo autentiche idiozie del tipo “Renzi ci piace perché anche lui è figlio della Berlusconi generation”. Diamoci un taglio con amenità del genere e questa destra che scalda gli scranni in Parlamento torni a fare la destra. Se ne è ancora capace. Altrimenti, tolga il disturbo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:06