Privacy in albergo:  la  cameriera curiosa

Ha fatto il suo ingresso nella stanza d'hotel, e con indosso i guanti da lavoro ha cominciato a curiosare fra gli oggetti del cliente. Prima una busta, poi i giochi della playstation, poi il computer, poi il tablet, poi la valigia e di nuovo il tablet. Protagonista dell'episodio è stata una cameriera di un albergo, addetta alle pulizie delle stanze, ripresa a sua insaputa dalla webcam di Vince Stravix, un turista americano che ha poi pubblicato il video su YouTube.

«La mia privacy è stata violata», ha detto il turista, che con il suo filmato ha ottenuto oltre dieci milioni di visualizzazioni in dieci giorni.

Niente da eccepire: la sfera privata di Stravix è stata infranta e su questo non c'è alcun dubbio. Anche io, al suo posto, mi sarei lamentato. Ma dall'ammettere una violazione a urlare allo scandalo, la strada è lunga. Furti non ce ne sono stati, e nemmeno è emerso che l'addetta alle pulizie era in realtà una spia o un detective al lavoro per conto terzi.

La donna, come molte donne e uomini, come quasi tutti noi esseri umani, era semplicemente curiosa. E assecondando questo desiderio di conoscenza irrazionale, ha commesso un peccato che tutto sommato definirei “veniale”.

Le violazioni della privacy, infatti, sono di tre tipi, differenziabili a seconda della gravità. Il primo, il più grave, è quello in cui il fine è “controllare” l'individuo. In questo caso, della vittima si cercano di carpire dati anche sensibili quali le scelte politiche o sessuali, con il fine di “governarli” socialmente.

Il secondo tipo riguarda la profilazione dei clienti per scopi commerciali. Questo stadio è piuttosto innocuo: al massimo, il malcapitato a cui sono stati sottratti i dati sarà invitato a comprarsi un materasso o un telefonino. Il terzo e ultimo tipo riguarda invece quelle violazioni scaturite appunto dalla curiosità. Si tratta sempre di invasioni nella sfera personale, è vero, e possono dare fastidio. Ma la curiosità, quando non ha secondi fini, si esaurisce in se stessa. E se lamentarsi è giusto, farne una malattia è da “paranoici della privacy”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:12