“Il Popolo dei Forconi”,   a tu per tu con Ferro

Per sapere come stiano le cose in Italia, bisogna chiederlo a chi abbia il polso del paese reale. Chi meglio di Mariano Ferro, cinquantaseienne agricoltore siciliano, anima e cuore del Popolo dei Forconi, può aiutarci a capire? Mariano, che il sudore e il sole della sua terra se li porta stampati in faccia, ci accoglie con espressioni che sono di pessimismo e di speranza. Per lui la situazione è drammatica, perché il Paese è lanciato a folle velocità verso il punto di non-ritorno oltre il quale c’è il precipizio della rottura traumatica dell’equilibrio sociale. Nonostante tutto, a sentirlo, c’è ancora la possibilità di evitare il peggio, a patto però che si facciano alcune cose subito. 

Com’è l’umore dei tanti simpatizzanti e attivisti del suo movimento?

Nero, nerissimo, come vuole che sia. Qui le cose non girano. Il sistema produttivo italiano sta andando in  frantumi. Si fa un bel parlare delle eccellenze italiane ma la verità è che il “made in Italy” lo si è messo sotto i piedi consentendo che una globalizzazione selvaggia distruggesse il nostro modo di produrre. Guardi che non mi riferisco solo al mondo dell’agricoltura che oggi è letteralmente in ginocchio. Pensi che cosa è stato fatto al nostro artigianato. E al commercio. E’ un’ecatombe d’imprese.

Ma cos’è che fa più male?

Oggi le tasse ci strozzano. Un imprenditore non ha più margini, non dico per guadagnare ma anche solo per pagare quello che lo Stato gli chiede. Poi c’è la burocrazia, che toglie ossigeno. Credito? Manco a parlarne! Come si regge la concorrenza in queste condizioni? E non so neanche se siamo più concorrenti… Non si regge. Punto. Per stare all’agricoltura, questi sono i giorni in cui in Sicilia si raccolgono le arance rosse. O meglio si dovrebbero raccogliere, perché con tutta probabilità le arance anche quest’anno resteranno sugli alberi. Raccoglierle costerebbe più del prezzo corrente di mercato, bassissimo per effetto della concorrenza estera.

Con chi combatte l’agricoltura italiana?

Il Nord Africa principalmente. I prodotti che arrivano dalla Tunisia, dall’ Egitto e dal Marocco, grazie alla manodopera che lì costa niente, stracciano il mercato. E’ tutta roba che non ha la nostra qualità ma costa poco e in un momento di crisi come questo i consumatori devono per forza guardare al prezzo quando fanno la spesa. Poi c’è la questione delle produzioni fuori suolo. Uno scempio. Altro che frutti della terra, dov’è la terra? quella è chimica servita in tavola.

Ma c’è la grande distribuzione. Com’è possibile che non riusciate a dialogare.

Con la concentrazione della distribuzione il mercato è finito. Non esiste più la logica della domanda e dell’offerta. C’è solo l’offerta.

Colpa della globalizzazione?

I nostri governi avrebbero dovuti proteggerci difendendo i prodotti italiani. Cosa che non è stata fatta.

E adesso che l’Europa si prepara a sottoscrivere il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, non siete più sollevati all’idea di scalare nuovi mercati?

Peggio mi sento. Quando anche le produzioni americane, che tendono a imitare moltissimo il “made in Italy”, invaderanno il mercato continentale per noi sarà la fine. E non ci si illuda che le nostre produzioni, con gli alti costi e le difficoltà infrastrutturali che conosciamo, possano competere dall’altra parte dell’oceano. Per noi piccoli produttori è una partita persa in partenza.

Eppure la Confindustria è entusiasta di come stiano andando le cose.

Appunto la Confindustria, cioè le grandi imprese. Quelle che conosco io, e sono tante, sono piccole, piccolissime. La maggior parte sono a dimensione familiare.

Andiamo al sodo. Cosa state facendo per le persone che sono nei guai?

Ci stiamo concentrando sulla battaglia per la revisione delle procedure di svolgimento delle aste giudiziarie. Lo Stato deve rendersi conto che quando si espropria un bene non vanno via solo mura e attrezzi ma anche vite umane e storie di famiglie che vanno in pezzi. Non è possibile che nel momento di maggiore dramma per una persona si aggiunga, come punizione accessoria, l’irruzione della speculazione che guadagna facendo sciacallaggio. Tre cose: basta con i ribassi che fanno crollare il valore dei beni e arricchire gli speculatori, niente più aste in studi professionali privati, le vendite giudiziarie devono tornare nelle aule dei tribunali e in ultimo i beni, una volta acquistati all’asta, non devono essere rivenduti per almeno 10 anni. Non è giusto fare business sulle sciagure altrui. Puntiamo su questo a una legge nazionale.

Basterà?

Bisogna avere sguardo lungo per capire che stiamo subendo una trasformazione epocale. Da qualche parte qualcuno ha deciso che l’Italia dovesse smettere di essere un paese di produttori per ridursi a essere una realtà di soli consumatori. Come possiamo accettare questo declassamento? E’ ora che la politica reagisca per difendere concretamente la nostra qualità dall’aggressione globale. Il “Made in Italy” non può essere solo un’etichetta. E’ una storia, una tradizione, è l’orgoglio di una nazione. Prima lo si comprende, prima ci si tira fuori dai guai.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:04