Il processo di mezzo

La capitale è in mezzo alla furia della tempesta. Roma Capitale si è trasformata in Mafia Capitale dopo l’avvio spettacolare con decine di arresti di un’inchiesta sulla corruzione che colpisce amministrazione, privati, cooperative e gli schieramenti politici di destra e sinistra. I commenti ed i resoconti in linea di massima identificano tutta la gestione economica del primo Comune del Paese in pura criminalità che immediatamente diventa, nella cronaca, nelle indagini e nel romanzo, mafia.

Tv e giornali sono subito scattati ed hanno largamente distribuito informazioni dettagliate sui nomi e sui cognomi, sugli indirizzi, sulle parentele e suoi ruoli, sui passati, presenti e futuri, sulle conversazioni telefoniche e su qualunque altro particolare possa venire in mente. L’idea che se ne fa il candido cittadino qualunque è che il crimine sia evidente, la colpa conclamata, il processo inutile e che sia meglio preparare direttamente la forca. Tutto giusto quindi? Qualcosa di strano c’è. Nel racconto offerto all’attonito pubblico c’è la stranezza dell’innocenza conclamata del primo cittadino di cotanto malaffare e, parallelamente, il sospetto suggerito su quello che era il capo dell’opposizione, la quale è sbriciolata in tanti gruppuscoli in litigio l’un con l’altro. C’è la stranezza dell’improvviso deja vu che suggerisce questa Mafia Capitale. Infatti non è la prima volta che questa calca la scena delle cronache giudiziarie. Poco tempo fa è sceso il sipario sul dramma simile di Napoli Criminale. C’era in tutto il suo orrifico aspetto il racconto di una città in mano ad un imprenditore, descritto come un burattinaio tangentaro.

Tutto però, incluse le accuse cadute nel nulla, si è dissolto in una bolla di sapone. Hanno invece raggiunto faticosamente il nulla di fatto le riluttanti e strascinate inchieste sulla Camorra Regionale campana, che rischiavano di coniugare la condanna giudiziaria con quella storica su una amministrazione quasi ventennale che aveva dato il potere alla camorra di ricattare tutto il paese con l’arma dei rifiuti. Nello stesso periodo era finita in un’altra bolla di sapone anche la campagna giudiziaria Telefonia Criminale che alla sua partenza aveva presentato un girone infernale misto di grandi Telco, truffatori romani e internazionali, politici di destra con contorno di servizi e terroristi.

E il flop dell’inchiesta del 2009 seguiva all’analoga fine dell’inchiesta identica nel titolo e nella trama del 1996. Un’inchiesta durata nei 2 tempi un totale di 3 lustri, scoppiata nel nulla 2 volte. Nemmeno è ben chiaro dove andrà a parare Monnezza Connection, l’abbuffata di arresti avvenuta a discapito del re della gestione rifiuti di Roma, collaboratori e conoscenti del business e della politica. Per ora è solo noto quanto costino 6 anni di intercettazioni racchiuse in 400 cd: 65mila euro. Quanto abbia speso lo Stato per raggrupparle è un dato non noto che l’auspicata trasparenza vorrebbe evidenziato. Scomparsa dalla memoria è anche l’inchiesta sulla Medicina Criminale pugliese secondo la quale un solo burattinaio teneva in mano tutta la sanità della regione. Ci sono stati poi i tornadi sulla Lombardia e la sua sanità, sul Piemonte, sull’Umbria.

Lo sguardo d’insieme mostra frame onirici che tornano sempre, come loop continui. Per l’esempio, il rifiuto della geografia economica. Le regioni con i migliori dati risultano sempre condannate, le peggiori tralasciate. Per esempio, la passione storica. Come eterni Morandi della scena, i fatti e gli uomini di quarant’anni trovano sempre un ruolo attuale, quasi a prolungare infinitamente nel tempo i temi della misera imitazione nostrana della guerra fredda e dell’altra miseria nostrana, la guerra civile di 80 anni fa. Per esempio, la cialtroneria statistica. Si citano associazioni internazionali faziose o di dilettanti per ottenere il desiderato riscontro al luogo comune da dimostrare. Girano dovunque, senza vergogna, cifre che gli stessi editori\redattori sanno inventate, sovrastimate, messe fuori contesto. Questo vale, per citare, per i numeri su corruzione, su occupati a tempo indeterminato, su donne uccise, su scioperi, su evasione fiscale, su produttività della giustizia. A ciò si aggiunge l’uso fantasioso e improbabile dei termini mafia, terrorismo, illegalità. Infine, per esempio, il gusto del grande show in un nuovo avanspettacolo dove a seguire invece che film comici ci sono i file audio delle intercettazioni. L’acme fu raggiunto ai tempi delle ventate inquisitorie contro le vallette, i bellimbusti spacconi e le risate degli imprenditori. Gli arresti sono sempre tanti, drammatici nello sventolio di mitragliette, con la naturale esigenza di celebrità in cartellone\ cellulare.

La Giustizia parte in quarta, senza neanche un attimo in folle, consegnando verità tribunalizie alle folle e poi perde mordente in corsa finendo spesso senza neanche tagliare il traguardo. La sorella mediatica, su carta e schermo, strilla, racconta, sputa, s’infervora all’avvio e poi generalmente tace alla fine, ammiccando irosamente sulle prove non provate, le congetture campate in aria, i teoremi fantasiosi. Lo schema del processo Tortora è un must ripetitivo nel quale la partenza è quella che conta. Anche dopo la scomparsa dalle aule, le accuse, ripetute nel tempo dall’irriducibile scrittore\saggista\analista di turno, che ne fa un atto di fede, restano ed hanno le conseguenze politiche ed economiche che contano.

Grazie a questo modello gli accusatori di ieri, oggi e domani, dei processi Tortora, sono destinati, al di là dei risultati, agli onori. Questo modello è la vera Terra di mezzo, il guado del passato dove affoga il Paese. Oggi la realtà di Mafia Capitale, paragonabile ad un fotoromanzo sconcerta. Chissà se, per il tempo utile a portare nelle sale un film omonimo, la bolla del Processo di Mezzo non avrà fatto flop.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 20:39